L’ALLARME DI UNIONCAMERE: “SEMPRE PIù LAVORATORI SONO IRREPERIBILI, BISOGNA PROGRAMMARE I FLUSSI MIGRATORI”

Gli ultimi dati diffusi dall’Istat sul lavoro sorridono: a luglio 2024 il numero di occupati supera di 9mila unità la soglia dei 24 milioni e, allo stesso tempo, il tasso di disoccupazione scende al 6,5% (-0,4 punti). Ma non è tutto oro ciò che luccica: Andrea Prete lancia l’allarme sulla carenza delle competenze che, al di là dei numeri sui lavoratori, resta una delle minacce per l’Italia. «Alcuni profili professionali sono pressoché irreperibili», avverte il presidente di Unioncamere.

Secondo cui, guardando ai prossimi anni, il rischio concreto è quello di non avere abbastanza giovani: le previsioni sulla riduzione della popolazione under 20 sono preoccupanti, motivo per cui auspica «uno sforzo importante di programmazione dei flussi migratori». E bisogna fare in fretta: l’allungamento dei tempi di ricerca dei lavoratori da parte delle imprese è già costato 44 miliardi di Pil potenziale. Quanto all’Intelligenza Artificiale, la ricetta è riuscire a bilanciare i rischi con le «opportunità di sviluppo straordinarie». Da qui l’invito a non avere paura della potente trasformazione tecnologica: «Nasceranno nuovi lavori, altri si modificheranno progressivamente».

I dati sull’occupazione sono incoraggianti. La carenza delle competenze è stata risolta o si pone ancora come un problema?

«Direi tutt’altro che risolta. Il mercato del lavoro italiano ha un grande problema. Tecnicamente si chiama mismatch, e indica il gap tra domanda di lavoro delle imprese e offerta del mercato. I nostri dati più recenti, relativi ad agosto, mostrano che, considerando il totale delle assunzioni che le imprese hanno programmato nel mese, il 48,9%, pari a 154mila entrate, è considerato difficile da reperire. Alcuni profili professionali sono pressoché irreperibili, ingegneri (60,4% è di difficile reperimento) e insegnanti di scuola primaria e pre-primaria (57,5%) per le professioni intellettuali, scientifiche e con elevata specializzazione; tecnici in campo ingegneristico (70,8%) e tecnici della salute (60,6%) per le professioni tecniche; operatori per la cura estetica (80,1%) ed esercenti e addetti nelle attività di ristorazione (55,5%) per le professioni qualificate nelle attività commerciali e dei servizi; operai specializzati soprattutto delle costruzioni (79,1%). A questo si aggiunge il problema della carenza di competenze, soprattutto nel digitale e nelle tecnologie green».

A cosa è dovuto il forte disallineamento sulle competenze tra i percorsi formativi e ciò che le imprese cercano?

«A tanti fattori. Alla difficoltà di far dialogare mondo della formazione e settore produttivo, alle tecnologie innovative che avanzano a ritmo estremamente rapido e che rendono necessari rapidi adeguamenti alle imprese. E poi abbiamo un forte problema di ricambio generazionale legato all’invecchiamento demografico, che sarà uno dei fattori più rilevanti nell’intensificare il mismatch, dal momento che porterà non soltanto a un aumento dei flussi pensionistici – e di conseguenza delle uscite dal mercato del lavoro – ma anche a una sensibile riduzione del numero di giovani in ingresso nelle forze lavoro».

Incidono anche i pregiudizi verso la formazione professionale? Gli istituti tecnici, spesso considerati di serie B, sono fondamentali…

«Certamente sì. È un retaggio culturale che ci stiamo portando dietro da decenni. È essenziale per questo potenziare tutti gli strumenti e le occasioni di orientamento. I giovani, per poter scegliere il percorso formativo e lavorativo più idoneo per loro, devono sapere quali opportunità concrete e rapide di lavoro hanno in prospettiva».

Dal punto di vista pratico, guardando da qui ai prossimi 20 anni, quali rischi si corrono? Di non trovare più elettricisti, meccanici e idraulici?

«Il problema più grande è che non ci saranno abbastanza giovani, semmai! Gli scenari demografici del nostro paese sono preoccupanti: le previsioni mostrano una possibile riduzione della popolazione under 20 di quasi un quinto al 2070. Ecco perché nel breve periodo uno sforzo importante di programmazione dei flussi migratori potrebbe certamente aiutare».

L’obiettivo dell’alternanza scuola-lavoro era proprio quella di inserire gli studenti nel contesto lavorativo. Ritiene giusta o inopportuna la criminalizzazione che ha subìto il progetto?

«Io sono convinto che l’alternanza sia un’utile occasione per i giovani di fare una prima esperienza di lavoro. Certo, deve essere organizzata e fatta bene».

Quale sarebbe la soluzione per accompagnare i Neet (i ragazzi tra 15 e 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in un percorso di formazione) al mercato del lavoro?

«Istat mostra che nel 2023 i Neet in Italia sono il 16,1%, in calo fortunatamente rispetto al 2022 e 7 punti percentuali in meno del 2018, quando era arrivata al 23,2%. Resta comunque ancora una consistente distanza dalla media Ue (10,4%). Credo che qualsiasi strumento si metta in gioco per aiutare questi giovani sia utile: informazione, formazione, accompagnamento al lavoro… Soprattutto nel Mezzogiorno, dove la quota dei Neet è ancora particolarmente alta: 24,7% contro 10,8% nel Nord e 12,3% nel Centro.

La mancanza di personale per le imprese lo scorso anno ha significato una perdita di 44 miliardi di Pil. Un bel macigno…

«Già, 44 miliardi di Pil potenziale che è venuto a mancare a causa dell’allungamento dei tempi di ricerca dei lavoratori da parte delle imprese».

La digitalizzazione e l’Intelligenza Artificiale possono aiutare o sono una minaccia?

«La digitalizzazione è un passaggio oggi indispensabile alle imprese per restare competitive sul mercato nazionale e internazionale. Le politiche europee e nazionali vanno in questa direzione e il recente piano Transizione 5.0 del governo coniuga ulteriormente la transizione digitale e quella green, indispensabile soprattutto a un paese come l’Italia ancora fortemente dipendente sotto il profilo energetico. L’Intelligenza Artificiale è la più recente frontiera di questa grande innovazione. Ha i suoi rischi, come tutte le trasformazioni, ma offre anche delle opportunità di sviluppo straordinarie. È un processo che dobbiamo affrontare e governare in tutti i suoi aspetti, anche quelli più critici. Negli ultimi mesi si è toccato spesso il tema di quale impatto l’IA avrà sul mondo del lavoro, di quali lavori sono a rischio. Ad esempio, una ricerca di Forum PA presentata a maggio mostra che il 57% dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici italiani è altamente “esposto” all’impatto dell’IA. Questa interazione potrà tradursi in un arricchimento delle attività grazie all’apporto dell’IA, oppure in una sostituzione dei lavoratori. Ben 1,8 milioni di persone, in diverse e molteplici funzioni e posizioni lavorative, avranno a che fare con l’Intelligenza Artificiale. I nostri dati ci dicono che per il 76,8% delle imprese queste tecnologie affiancheranno il personale esistente nei propri compiti migliorandone l’efficienza, per il 68% accelereranno l’introduzione di processi di reskilling/upskilling del personale e per il 67,3% aumenteranno la produttività. Insomma, come ha detto il ministro della Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, penso anch’io che non bisogna aver paura di questa evoluzione. Nasceranno nuovi lavori, altri si modificheranno progressivamente. Avevamo timori analoghi in passato, con altre trasformazioni, prima tra tutte quella relativa all’avvento delle nuove tecnologie. Ora non riusciamo a farne a meno».

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