IL GOVERNO RINUNCI ALLA RETORICA CELEBRATIVA: L’ECONOMIA ITALIANA è UN SONNAMBULO TENUTO IN PIEDI DALLA DROGA DELLA SPESA PUBBLICA

Macché “outperformer”. L’economia italiana è un sonnambulo tenuto in piedi dalla droga di una spesa pubblica che ha rischiato di finire fuori controllo e che ora dovrà accettare l’amara ma necessaria medicina del nuovo patto europeo di stabilità e crescita. La narrazione degli opposti populismi su un Paese che farebbe meglio dei peers europei è basata su una lettura parziale e distorta dei dati strutturali. Se si escludono i “calabroni dell’export”, ovvero quelle imprese esposte alla competizione internazionale che hanno saputo accettare la sfida dell’innovazione e che continuano a volare negli scambi commerciali globali, apparentemente contro ogni logica razionale, il resto dell’economia nazionale sembra vagare nella notte di questo lungo ciclo di crisi successive, senza una direzione precisa e soprattutto senza che la politica sappia o voglia indirizzare i problemi strutturali del Paese.

Il governo farebbe bene a rinunciare alla retorica celebrativa e a dire la verità ai cittadini: ci aspettano mesi, anzi anni, di scelte difficili, per quanto necessarie. È onesto ammettere che si muove in questa direzione il decreto del 26 marzo voluto dal ministro Giorgetti, che pone ulteriori, per quanto tardivi, limiti alla scellerata stagione dei bonus edilizi, nel tentativo di fermare l’emorragia inarrestabile di sussidi regressivi, che ha creato il più grande e distorsivo buco fiscale nella storia della Repubblica, un diabolico sabba del “gratuito” al quale hanno partecipato, con pochissime e lodevoli eccezioni, tutte le forze politiche. L’ubriacatura di debito pubblico è stata avviata con i sussidi a pioggia usati come mitigazione di una crisi in buona parte auto-indotta da una gestione erratica e populista della pandemia, visto l’impatto asimmetrico rispetto a quello rilevato in altri Paesi.

Le centinaia di miliardi di debito nazionale aggiuntivo non sono state indirizzate a imprimere una svolta su produttività e concorrenzialità del sistema economico, ma primariamente a garantire la sopravvivenza di tutti i soggetti economici pre-esistenti, anche quelli inefficienti, che invece avrebbero dovuto essere accompagnati a uscire in modo ordinato dal mercato per consentire una riallocazione di risorse umane e finanziarie sottoutilizzate. Ma la madre di tutte le aberrazioni di politica fiscale è stata senza dubbio la successiva stagione dei bonus edilizi, una vera e propria galleria degli orrori economici: imperizia, regressività, effetti inflazionistici indotti, distorsione del mercato, esposizione alle frodi, sostanziale inefficacia sia sulla produttività del settore sia sull’impatto ambientale. Il deficit del 2023 è stato già corretto al rialzo al 7,3%, e non si esclude che possa arrivare a livelli anche superiori, con un implicito deficit primario (invece del necessario surplus) che si colloca intorno al 3,4%, riportando il Paese ai pattern di indisciplina fiscale degli anni ’70 e ’80, quando furono gettate le basi per l’esplosione improduttiva del debito pubblico. A fronte di questa enorme massa di spesa pubblica inefficiente, celebrare incrementi del Pil di qualche zero virgola, esaltando il differenziale di qualche decimale di punto rispetto alla media europea come se fosse un trofeo da esibire, appare del tutto inappropriato.

E la terza dose massiccia di debito che va sotto il nome di Pnrr, questa volta offertaci in modo che oggi appare alquanto improvvido dalla generosità dei partner europei, per quanto un po’ meglio indirizzata grazie alla recente riallocazione dei capitoli di spesa, rischia di nuovo di essere spesa male, senza indurre significativi cambiamenti strutturali nell’economia nazionale. Non che siano mancati gli investimenti in questi ultimi anni in Italia. Il problema è di quali investimenti si è trattato, e con quale modalità sono stati spesi. Gli investimenti in Italia, inclusi quelli edilizi, sono aumentati del 30% tra il 2019 e il 2023, il maggiore incremento dal 2000. Tale crescita è stata stimolata principalmente dal Superbonus, che ha influenzato positivamente il Pil, ma molto meno di quanto sostenuto dai suoi promotori: per ogni euro di spesa pubblica, solo qualche decina di centesimi si sono trasformati in Pil aggiuntivo, e per di più con un criterio regressivo. Gran parte dei benefici fiscali, infatti sono finiti alle fasce medio-alte di reddito e di patrimonio, mentre i loro costi sono stati ripartiti anche sui cittadini meno abbienti. Il settore delle costruzioni ha visto un aumento del 40% nella produzione, mentre altri paesi hanno registrato una sostanziale stabilità (In Francia e nel Regno Unito la crescita è stata del 7%) se non una contrazione, come in Germania, dove si è registrata una riduzione del 5%.

L’effetto inflattivo indotto dal Superbonus, che ha indotto un picco di domanda a fronte di un’offerta necessariamente rigida nel breve periodo, ha anche contribuito a innescare una spirale inflattiva su tutti i beni e servizi del settore costruzioni, con prezziari edili regionali che sono aumentati in pochi anni anche dell’80%. Nonostante il Superbonus, insieme agli altri bonus edilizi, sia dipinto da alcuni come un successo, ha quindi comportato enormi costi per il bilancio pubblico e ha avuto un impatto molto pesante sul debito nazionale, il cui rapporto con Pil è stato mitigato solo grazie agli effetti dell’inflazione, che hanno fatto lievitare il valore nominale del prodotto interno loro e hanno quindi eroso il valore reale del numeratore. L’inflazione cumulata in questi ultimi 3 anni, dunque, ha rappresentato una specie di tassa silenziosa sui redditi degli italiani che è andata paradossalmente a ridurre il rapporto debito Pil proporzionalmente molto più di quanto abbia fatto la modesta crescita del prodotto interno lordo. Gli analisti prevedono un rallentamento della crescita italiana nei prossimi anni, poiché l’effetto del Superbonus si esaurirà e i problemi strutturali rimarranno irrisolti. Il tutto mentre il debito pubblico ha registrato la dinamica peggiore di tutti gli altri grandi paesi europei.

Non c’è da stupirsi. Secondo un’analisi dell’Ocse (n. 1465, 2018), l’Italia vantava già nella gestione della precedente grande crisi del 2008-2012 il record negativo assoluto di (in)efficienza della spesa pubblica a indurre effetti di crescita. Un recente paper di Bankitalia (n.1439, febbraio 2024) ha evidenziato come la spesa pubblica per acquisti non renda le imprese che lavorano per lo Stato né a crescere, né a essere più produttive, né più orientate ad assumere personale. Al contrario, la pubblica amministrazione finisce per isolare e proteggere i propri fornitori dalla concorrenza delle imprese che rimangono a competere sul mercato privato, allungandone mediamente la vita finanziaria grazie al flusso di pagamenti pubblici e in ciò ostacolando il naturale ricambio di mercato con aziende più efficienti.

Un esempio: si parla, giustamente seppur tardivamente, di rimettere mano alle spese militari di fronte alle nuove minacce geopolitiche da Russia e Medio Oriente. Ma senza una radicale ristrutturazione del budget della difesa, l’aumento di spesa sarebbe inefficace. Oltre due terzi oggi sono dedicati agli stipendi del personale, la percentuale più alta di tutti grandi paesi europei, e incomparabilmente più inefficiente di quella UK (32%) e USA (38%), mentre l’incidenza della spesa per manutenzione e munizioni (7,9%) è la più bassa di tutti i paesi Ocse e una ridotta frazione di quanto (43,3%) dedica UK alla stessa voce.

Sull’occupazione, peraltro, altro risultato vantato dalla politica, l’Italia ha registrato risultati migliori rispetto ai miserevoli indicatori precedenti, ma ha fatto e fa tuttora peggio di quasi tutti gli altri grandi paesi europei: rispetto al 2018, il livello di total employment in Italia è migliorata a oggi di 3-4 punti, mentre nel resto d’Europa è cresciuto tra 5 e 13 punti. Sull’innovazione, gli ultimi dati dell’European Innovation Scoreboard 2023, l’Italia ha il peggior risultato dei grandi paesi rispetto al 2022, e ora risulta nettamente inferiore alla media europea in molti ambiti cruciali: il livello di investimenti aziendali in innovazione, il supporto finanziario per attività innovative, il livello di digitalizzazione, la qualità e la quantità del capitale umano su tecnologia e innovazione. Gli investimenti in ricerca e sviluppo in proporzione al valore aggiunto, analizzati da Eurostat, sono da decenni una frazione di quelli di Francia e Germania. Sugli indici di libertà economica, l’Italia è scesa al 81° posto dell’Index of Economic Freedom della Heritage Foundation di Washington, perdendo ben 12 posizioni rispetto al 2022, a causa della sempre maggiore interferenza dello Stato nell’economia, della burocrazia asfissiante, della mancanza di riforme pro-competitive. Un posto più in giù, e in quell’indice saremmo finiti nella categoria dei Paesi “oppressivi” rispetto alla libertà economica, alla tutela dei diritti di proprietà, al rispetto dello stato di diritto.

Dopo un quarto di secolo di crescita asfittica (rispetto al 2000, il Pil italiano è aumentato solo del 7%, mentre le altre grandi economie europee sono cresciute tra il 30 e il 40%) non è il caso di festeggiare qualche decimale di rimbalzo indotto dalle anfetamine dei bonus fiscali e con un’inflazione tutt’altro che definitivamente domata. Se vuole fare gli interessi del Paese, il governo riparta dal titolo di questo giornale.

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