CIMBRI: «IL LAVORO DA REMOTO NON è LA NUOVA NORMALITà»

«So di dire cose impopolari rispetto alla new wave del pensiero sullo smart working, ma non penso che sia la nuova normalità». Il presidente del gruppo Unipol, Carlo Cimbri, non è mai stato tra i sostenitori del lavoro da remoto che è stato introdotto nella compagnia in coincidenza con la pandemia. Ci spiega che è comunque «in corso una sperimentazione che durerà fino alla fine dell’anno. Poi si vedrà».

Sicuramente nei piani di Cimbri questa non sembra una priorità, via via che si avvicina la fine dell’anno e alcune scadenze importanti. Una è quella della sua presidenza, su cui dice che «se i soci me lo chiederanno sono disponibile a un nuovo mandato. Lavoro in Unipol da 33 anni e mi metto a disposizione per continuare a fare il bene della società». L’altra è quella del piano industriale. L’inizio del 2025 rappresenterà quindi un periodo molto intenso, che sembra sposarsi ancora meno bene con il tema del lavoro da remoto, lontano dall’approccio che, prima da amministratore delegato e poi da presidente, Cimbri ha avuto all’organizzazione del lavoro e, forse, anche dal Dna della società dove oggi lavorano 12.400 persone.

Nell’ambito del ricambio generazionale la compagnia ha in corso un piano di assunzioni di giovani che sarà molto più orientato verso le discipline scientifiche e tecnologiche. Ossia quelle dove la carenza di candidati porta a una concorrenza nel recruiting più forte che si gioca anche sullo smart working, tant’è che non c’è recruiter che non dica che tra le prime domande dei candidati una è sempre sui giorni di lavoro da remoto. «Rispetto alla storia delle assicurazioni oggi c’è una maggiore incidenza delle competenze scientifiche e tecnologiche. Le aziende di servizi come la nostra utilizzano di più e meglio la tecnologia, ma questa opzione non si deve tradurre in un’organizzazione del lavoro in cui tutti lavorano a distanza - sostiene Cimbri -. Questa prospettiva è drammatica soprattutto per le giovani generazioni. Se io penso a un ragazzo appena laureato che lavora da casa, immagino che magari può essere più felice perché riesce a gestire meglio il suo tempo, ma penso anche che non sto facendo il suo bene. Il lavoro non è fatto solo di tecnologia ma di relazioni umane. Si apprende anche dai comportamenti, dall’esperienza, dalle competenze dei colleghi. Non penso che le società in cui le persone lavorano molto da casa siano migliori di quella che abbiamo creato noi».

Nessun timore sull’attrattività verso i giovani perché «l’attrattività di un’azienda non può essere data dalla presenza o meno dello smart working. Se fosse così verrebbe meno il presupposto. In un’azienda che cosa cercano le persone? La possibilità di apprendere, migliorare la componente economica, la posizione sociale, la soddisfazione di fare carriera. Se ciò che interessa è lo smart working e avere a disposizione più tempo libero per sè, allora forse è la società a dover dire che è il candidato a non essere la persona giusta».

Nella visione del presidente di Unipol non mancano però delle sensibilità e delle aperture. Ne citiamo una. «Nel nostro Paese parliamo molto di pari opportunità e di gap salariale tra uomini e donne che si determina non perché per la stessa mansione ci sono diversi livelli di retribuzione a seconda che il lavoratore sia uomo o donna - ragiona Cimbri -. Il gap esiste sulle medie delle retribuzioni perché le donne fanno meno carriera degli uomini. Molte carriere femminili si interrompono non per il lavoro in quanto tale, ma per i carichi familiari, per i figli che portano le madri a rimanere fuori o ad allontanarsi dall’azienda per lunghi periodi. Un uso positivo della tecnologia e dello smartworking può essere proprio quello finalizzato a mantenere le donne agganciate all’azienda e alla carriera».

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