UNA TOPPA NON BASTA PER SANARE IL MACIGNO QUOTA 100

Forse sarà una questione di copyright riservato a Matteo Salvini, ma, a prestarvi attenzione, si nota che Giuseppe Conte non parla volentieri dell’azione – dei due governi da lui presieduti – in materia di pensioni.

Eppure, nel decreto n.4 /2019, al Capo I dedicato al reddito di cittadinanza, seguiva il Capo II che introduceva, in via sperimentale per un triennio, nuove forme di pensionamento anticipato. Quelle misure sono passate alla cronaca (nera?) sotto il titolo di quota 100 (62 anni di età + 38 di versamenti contributivi).

Il decreto prevedeva, altresì, fino a tutto il 2026, il blocco del requisito contributivo a prescindere da quello anagrafico (a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e ad un anno in meno per le donne), dell’adeguamento automatico all’incremento dell’attesa di vita. Alla prova dei fatti, questa seconda uscita di sicurezza si è dimostrata più vantaggiosa di quota 100, perché i pensionati del baby boom si sono rivelati in grado di maturare il requisito contributivo ordinario prima di aver compiuto i 62 anni richiesti dal regime delle quote.

Conte aveva dimenticato la sua complicità nell’operazione impostagli da Salvini, già nel programma proposto dal M5S per le elezioni del 25 settembre, in cui, in tema di pensioni, venivano indicati obiettivi sarchiaponeschi, buoni per tutti gli usi possibili: “Evitando il ritorno alla legge Fornero – stava scritto – attraverso l’ampliamento delle categorie dei lavori gravosi e usuranti e attraverso meccanismi di uscita flessibile dal lavoro”.

Queste norme, nella propaganda giallo/verde – ci mise del suo anche Luigi Di Maio – oltre a rendere giustizia alla classe operaia (rigidamente maschile) del Nord che aveva meritato di andare in quiescenza il prima possibile (e restarci per più di vent’anni), erano finalizzate ad aumentare l’occupazione dei giovani a cui sarebbero state aperte le porte delle aziende per sostituire gli anziani/giovani che ne uscivano. Quota 100 ha esasperato il divario nell’anticipo del pensionamento tra lavoratori e lavoratrici. Nel triennio 2016-2018, le pensioni di anzianità liquidate presentavano, fra i lavoratori dipendenti del settore privato, un rapporto di una donna ogni tre pensionati; con quota 100 il rapporto è risultato di una donna ogni sei pensionamenti. Per i soli effetti di quota 100, la Relazione tecnica prevedeva un maggior numero di pensioni, cumulato nel triennio, pari a 973mila unità, così suddiviso in totali parziali: 343mila dipendenti privati, 302mila lavoratori autonomi e 328mila dipendenti pubblici; con 30 miliardi di costo già a metà del terzo anno. Per fortuna, i “sogni di gloria” delle previsioni furono smentiti dalla realtà.

Nel triennio i percettori di quota 100 (e altre misure) sono stati 435 mila con una spesa di 11 miliardi (di cui 7 miliardi nei settori privati, 4 miliardi nel pubblico impiego); con una spesa di 2,5 miliardi per chi ha usufruito del blocco dell’incremento della speranza di vita per il pensionamento anticipato ordinario. Aggiungendo il costo di opzione donna si è arrivati a 13,7 miliardi, con una minore spesa rispetto alle previsioni di poco più di 7 miliardi. Alla fine del triennio le quote (102, 103) sono servite a rallentare la fuga, fino a svolgere, per l’anno in corso con quota 103 revisionata, una funzione disincentivante.

Adesso però viene il momento di fare le cose sul serio, perché dal 1° gennaio 2025 – come prevede la legge di bilancio 2024 – viene ripristinato l’adeguamento automatico all’incremento dell’aspettativa di vita e pertanto “riparte” la riforma Fornero. Dal momento della sua entrata in vigore all’inizio del 2012, i vari provvedimenti di deroga, rinvio, blocco – dagli esodati in poi – hanno sottratto ben 48 miliardi di minore spesa cumulata rispetto agli 88 previsti. Mentre a ben 940mila soggetti è stato consentito di andare in pensione sulla base delle regole previgenti.

2024-03-29T10:31:00Z dg43tfdfdgfd