RAPPORTO DRAGHI, UNA MASTODONTICA REDISTRIBUZIONE DI REDDITO DAL BASSO VERSO L’ALTO

L’attesissimo Rapporto Draghi sulla competitività è finalmente arrivato. Già il titolo evoca un tempo andato. “Competitività” è la parola chiave della fase de “La fine della Storia e l’ultimo uomo” di Francis Fukuyama. Il lessico dell’apogeo della globalizzazione e della rotta mercantilista dell’Unione europea trainata dalla Germania. Siamo in un’altra stagione. Il mercato globale si frammenta in mercati regionali tra “amici”. È, dovrebbe essere, la stagione della domanda interna. L’invocazione di colossali investimenti pubblici, come scritto nel testo consegnato dal presidente della Bce, implicitamente lo conferma.

Sarebbe stato decisamente meno stridente con il segno dei tempi incentrare il Rapporto sulla “Produttività”. Competitività è “pericolosa ossessione”, secondo la perfetta defizione coniata da Paul Krugman nel 1994, richiamata dallo stesso Mario Draghi a La Hulpe, alla conferenza sul pilastro sociale dell’Unione, qualche mese fa. Per entrare in sintonia con le diffuse e spesso rabbiose domande di protezione sociale e identitaria, sarebbe stato intelligente scrivere un programma “Per la piena e buona occupazione”. Si sarebbe evocata una meta di speranza e di luce. Invece, si insiste su un termine freddo, anzi raggelante, segnalatore di precarizzazione delle vite, oltre che del lavoro: un “mezzo” al quale per trent’anni è stato ideologicamente associato un fine sempre contraddetto dalla realtà: il miglioramento delle proprie condizioni materiali. Ma, come ci ha ricordato il commissario Paolo Gentiloni con il suo commento alle elezioni in Sassonia e Turingia, è il popolo che sbaglia a votare.

Veniamo al merito. Il Rapporto Draghi ha due contenuti di portata significativa. Non riguardano le policies. È la nota e martellata agenda di riforme strutturali. Si aggiunge, in coerenza con la deriva dell’Ue a “dipartimento civile della Nato globale”, il salto di scala nella produzione di armamenti. Ma qui non discutiamo il “cosa”. Qui, guardiamo ai due aspetti del “come”. Il primo riguarda la governance. Mario Draghi è realista. Le favole sugli Stati Uniti d’Europa e sull’Europa federale non possiamo più permettercele. Sono state utili a raccontare come è transitorio il dominio del mercato. Ma, ora, non possiamo perdere altro tempo con le “Convenzioni sul futuro dell’Europa” o con le “Conferenze per la riforma dei Trattati”. L’aveva già esplicitato in altre sedi. Lo ribadisce in un documento ufficiale, scritto su incarico della Commissione di Bruxelles. Gli urgenti beni pubblici europei li possiamo “produrre” attraverso l’unica strada percorribile sul terreno politico: la strada della cooperazione tra democrazie nazionali autonome. La strada inter-governativa. La centralità del Consiglio dei capi di stato e di governo. Il ridimensionamento delle iniziative della Commissione e del Parlamento europeo, in applicazione coerente del principio di sussidiarietà, di cui Draghi lamenta la violazione sistematica negli ultimi decenni. Torneremo in un altro momento su tale, definitivo, chiarimento. Ora, ci concentriamo sull’altra parte significativa del “come”: i mezzi finanziari per raggiungere gli obiettivi elencati.

Il Rapporto richiama le stime della Commissione europea: sono necessari 750-800 miliardi di euro all’anno, circa 5 punti percentuali di Pil Ue, per alimentare gli investimenti nelle infrastrutture, nella ricerca scientifica e tecnologica e nell’innovazione, negli armamenti. Gli investimenti pubblici e privati dovrebbero saltare da una media del 22% all’anno al 27% in relazione alla dimensione aggregata delle economie dei 27 Stati membri. I dati mostrano che, senza spinte fiscali, soltanto un quinto delle somme aggiuntive stimate potrebbe arrivare dai settori privati. Il Rapporto è chiaro: è ora di massicce emissioni di debito pubblico degli Stati nazionali. Via Bruxelles o direttamente dalle capitali. Si potrebbe ripetere l’esperimento, introdotto come “irripetibile”, dell’emissione di debito pubblico Ue, come per i Pnrr. Il termine “Eurobonds” è proibito, quindi si presenta come “common safe asset”. Aiuterebbe il funzionamento dei mercati finanziari. Si dovrebbe discutere del suo utilizzo visto il riorientamento delle politiche pubbliche europee verso il warfare come prescritto nel programma della maggioranza Ursula allargata. Ma sarebbe sensato. Purtroppo, la soluzione si scontra con sempre più acute difficoltà politiche. Forse, potrebbe passare una seconda eccezione per la Difesa. Difficilmente per altro. Draghi lo sa, ovviamente. Quindi, ripiega sull’emissione diretta da parte Stati nazionali: per trasferire risorse aggiuntive al bilancio dell’Unione; per riconoscere tassazione di favore agli investimenti privati affinché i relativi rendimenti si innalzino a sufficienza; sopratutto, per finanziare direttamente i progetti.

Nell’uno e nell’altro caso, è il famoso debito pubblico buono. Bene, allora? No. Male. Molto male. Perché, a prescindere dalle regole formalizzate nel revisionato Patto di Stabilità e Crescita, senza un radicale mutamento della politica monetaria, la maggior spesa per interessi risucchierebbe, prima o poi, le risorse per sanità, scuola, politiche sociali. Il Rapporto è reticente su tali implicazioni. Ammicca soltanto a ulteriori interventi sulle pensioni al fine di sostituire quote sempre più ampie di previdenza pubblica con previdenza privata e mobilitare risparmio delle famiglie verso gli investimenti. Ma non sarebbero sufficienti. In sintesi, da un lato, ancora mutilazioni del welfare; dall’altro, rigonfiamento delle rendite finanziarie dei settori a maggiore capacità di risparmio, certamente non lavoratrici e lavoratori e classe media spiaggiata. Insomma, una mastodontica redistribuzione di reddito dal basso verso l’alto.

Si potrebbe evitare? Sì. Come? Attraverso il soccorso della Bce. Il debito pubblico buono, finalizzato alla concordata strategia di investimenti aggiuntivi, dovrebbe essere comprato dal sistema delle banche centrali nazionali guidato da Francoforte, come si è fatto durante la pandemia per lasciare a zero i tassi di interesse e evitare oneri aggiuntivi per i contribuenti. Tale debito aggiuntivo dovrebbe, quindi, rimanere in pancia all’Eurosistema, come già si sarebbe dovuto fare con il debito Covid e quello accumulato per ridurre l’impatto sui prezzi della guerra in Ucraina. In sostanza, si dovrebbe infrangere il tabù della monetizzazione del debito pubblico. Mario Draghi, quando ricevette il premo Paul Volker a New York a metà febbraio scorso, riconobbe il passaggio di fase storica e segnalò l’esigenza di declinare l’indipendenza delle Banche centrali in termini meno autoreferenziali al fine di sostenere le politiche di bilancio. Qui, no. Qui, viene al pettine il nodo politico decisivo: lo statuto ordoliberista dell’Ue, inteso come regole monetarie e di bilancio, è incompatibile con la strategia per affrontare le sfide eccezionali di fronte a noi: conversione ecologica vincolata da sostenibilità sociale; transizione digitale; sostegno allo sviluppo delle economie africane per promuovere il diritto a non emigrare. Le nozze con i fichi secchi non si possono fare.

Stupisce il giubilo per il Rapporto Draghi da parte di chi si ripropone come rappresentante di lavoratrici e lavoratori.

2024-09-10T09:37:30Z dg43tfdfdgfd