«IL CINEMA ITALIANO è IN CRISI» DAI TEMPI DI DINO RISI, MA ORA FORSE è VERO

La verità è che non sappiamo né pensare né comportarci come un sistema. Ci proviamo, ci diciamo che ne siamo in grado, che dobbiamo farlo per noi stessi e per chi verrà dopo. Ma vediamo unicamente i piccoli problemi, quelli che ci toccano da vicino, nell’immediato, e facciamo finta di non vedere quelli più grandi, che possono mettere seriamente a rischio la nostra sopravvivenza – fisica, se parliamo di pianeta e guerre; culturale ed economica se, al contrario, restringiamo il campo al nostro paese e a temi più specifici.

Le associazioni di categoria dell’industria audiovisiva hanno indetto per il 5 aprile, al Cinema Adriano di Roma, una conferenza stampa per parlare dei ritardi e delle difficoltà sempre più consistenti che stanno affrontando. Titolo: “Vogliamo che ci sia ancora un domani”. Online sono comparsi post, riflessioni e commenti degli addetti ai lavori. La cosa che si è fatta notare, però, è stata un’altra. E cioè il disinteresse, reale o effettivo, di chi non appartiene al mondo dello spettacolo, del cinema, del teatro e della tv. Per carità: il pubblico non può conoscere come un regista, un attore o un produttore la crisi del settore. Rimane piuttosto evidente, però, il rapporto che ci unisce.

Se non si producono film, non ci sarà una programmazione in sala. Se non ci sarà una programmazione in sala, gli esercenti faticheranno a tenere aperti i loro cinema. Se gli esercenti faranno fatica, altre attività, più o meno direttamente collegate, rischieranno di chiudere. Ovviamente ne subirà le conseguenze anche il giornalismo culturale: verranno fatte meno interviste, ci saranno meno notizie e si riempiranno meno pagine. E quindi: meno pubblicità, meno copie vendute.

Se la cultura ristagna, ristagna pure il dibattito pubblico. Un film non può cambiare il mondo (forse, chi lo sa...), ma può influenzare il punto di vista degli spettatori: può porre domande dove, fino a poco prima, c’era solamente il silenzio. È un circolo vizioso quando non funziona ed è un circolo virtuoso quando, invece, tutto è al suo posto. Ma è proprio questa ciclicità che non riusciamo a comprendere – non vediamo che ognuno di noi fa parte di una struttura più grande e complessa, che porta vantaggi quando va bene e svantaggi quando va male.

Non c’è nessun ricatto morale in questo ragionamento. C’è, semmai, il tentativo di provare a isolare per un momento quell’ingranaggio che fatichiamo a riconoscere e che spesso – troppo spesso, in realtà – facciamo finta di ignorare. Il cinema contribuisce attivamente nella formazione e dell’affermazione di un’identità culturale. E lo stesso fa la televisione e il teatro. Non tutti i film sono capolavori, intendiamoci; e non tutti i film hanno lo stesso peso e la stessa valenza all’interno della vita dei singoli individui. Però cerchiamo di immaginare questo settore come l’organo di un corpo: non lo vediamo, è nascosto sotto strati e strati di pelle, carne e grasso, e ci sembra lontano, poco più di un’idea. Eppure ha il suo ruolo nell’economia generale delle cose, e se sta male sta male anche il resto del corpo – magari non subito, non immediatamente; ma sì, prima o poi la malattia arriverà alle braccia, alle gambe, alla testa e al cuore.

Dopo, e durante, la pandemia c’è stato indubbiamente una crescita vertiginosa dei costi e delle spese. In parte per la paura di vedere l’industria audiovisiva fermarsi di colpo, e in parte per una serie di investimenti strutturali che, quasi paradossalmente, hanno fatto bene nel breve periodo e male in quello lungo. Certi budget, oggi, non sono più sostenibili. Devono capirlo i produttori e devono capirlo gli autori. Ma la nostra industria non può bloccarsi per i ritardi dei finanziamenti e dei sostegni. Incertezza chiama incertezza, e se si normalizza questo clima di precarietà (che è già abbastanza diffuso) si corre il rischio di far diventare eccezionali anche gli atti più normali. Per un pezzo sempre più importantee della politica, la cultura non è un bene, ma un nemico. E chi la fa, chi ci lavora, è un intellettualoide arrogante, che non sa che cosa sia la vita vera. E invece, sorpresa, non è così.

Direttamente e indirettamente, nell’industria audiovisiva italiana lavorano circa 200mila persone. Che non sono poche, anzi. Portano soldi, contributi, attività. Sono una tessera indispensabile di quel mosaico più ampio, fatto di cicli e circoli, di cui parlavamo poco fa. Se 200mila persone perdono il proprio lavoro, o faticano ad arrivare alla fine del mese, gli effetti, per forza di cose, si faranno sentire pure in altri settori. E non ci sono solo il cinema o la televisione, c’è pure il teatro. E c’è, aspetto assolutamente da non sottovalutare, la filiera indipendente, più debole sia dal punto di vista delle risorse che delle garanzie.

Le realtà più grandi, con buone probabilità, sopravviveranno anche a questa crisi: ne usciranno più deb0li, zoppicanti e affaticati, ma ce la faranno. Le società più piccole, invece, rischiano di scomparire. E se scompaiono quelle, scompaiono le opere prime, gli esperimenti, l’innovazione, il ricambio generazionale e la capacità – fondamentale per il sistema – di rinnovarsi. È tutto collegato, lo ripetiamo, ed è arrivato il momento di capirlo.

2024-03-29T13:49:31Z dg43tfdfdgfd