Le Civil Social Business City pensate da Yunus hanno zero povertà, zero disoccupazione, zero emissioni. Ma si può fare di meglio, puntando ad azzerare anche la carenza di senso del vivere e i rischi per la vita democratica La quota di abitanti del pianeta che vivono nelle città è prevista passare dal 54% di oggi a circa il 70% nel 2030. Senza dimenticare l’importanza del rilancio delle aree interne è in questi immensi agglomerati urbani che si gioca gran parte delle grandi sfide di un futuro socialmente ed ambientalmente sostenibile. Uno dei capisaldi del paradigma dell’economia civile è che analizzare singolarmente i problemi senza tener conto delle loro interdipendenze è dannoso e controproducente. Una risposta ambientale che inasprisce i problemi sociali (o viceversa) è una non-risposta che si rivela alla lunga politicamente insostenibile.
Per questo motivo al prossimo Festival Nazionale dell’Economia Civile (3-6 ottobre a Firenze) metteremo al centro la visione delle Civil Social Business City, un modello di sviluppo urbano sostenibile promosso dal nobel Yunus e in via di sperimentazione in alcune città europee e non.
L’obiettivo affascinante della Civil Social Business City è quello dei “tre zeri” (zero disoccupazione, zero povertà, zero emissioni nette). Si tratta di un traguardo che implica la considerazione delle interdipendenze tra diverse dimensioni ma tutto dipende poi dal metodo con cui viene perseguito. Lo stile da noi proposto nel perseguirlo si fonda sulla partecipazione e sul coinvolgimento attivo di società civile, parti sociali e semplici cittadini. E questo ci consente di affiancare ai tre zeri altri due, quelli di zero depressione/ povertà di senso del vivere (un problema sempre più drammatico nella nostra cultura e tra i nostri giovani) e zero rischi per la democrazia (che è un albero che affonda le sue radici in un terreno che deve essere ricco dei sali minerali della partecipazione, del civismo e del capitale sociale). Per realizzare l’obiettivo ambizioso della Civil Social Business Cities dobbiamo iniziare dal comprendere appieno le trappole statistiche.
Ci stiamo avviando verso un mondo senza disoccupazione, o meglio con disoccupazione solo frizionale (il minimo non sopprimibile che dipende da coloro che si spostano da un lavoro all’altro) per via della crisi demografica di un modo che sarà scarso di lavoratori non di posti di lavoro. Ma disoccupazione che statisticamente tende a zero (o si riduce significativamente) non significa automaticamente lavoro generativo e dignitoso. Come è noto sono statisticamente occupati anche i lavoratori saltuari e i lavoratori poveri, ovvero coloro che, pur lavorando, non riescono ad avere un reddito sopra le soglie di povertà assolute o relative. Ecco perché ad esempio la combinazione povertà zero, disoccupazione zero ha già più senso del dato singolo perché implica l’assenza di lavoro povero. Le politiche per realizzare l’obiettivo dei tre zeri con il metodo partecipativo, che ne assicura altri due, sono note (il che non vuol dire che siano applicate o immediatamente applicabili).
Nell’era dell’intelligenza artificiale, dell’aumento della velocità di creazione e distruzione “Schumpeteriana” di posti di lavoro, l’investimento su istruzione, sviluppo di competenze hard e soft e in riqualificazione lavoro è la chiave. L’approccio partecipato multistakeholder nella lotta alla povertà implica il mettere attorno al tavolo forze diverse e complementari (amministrazione pubblica, civile e terzo settore, imprese profit) per costruire modelli di presa in carico e inclusione generativa che abbiano a disposizione tutti gli strumenti necessari. La transizione ecologica, necessaria per raggiungere l’obiettivo delle emissioni nette zero va realizzata in modo socialmente sostenibile. Mettendo in evidenza in primo luogo come il ritardo nella transizione comporta costi sociali più elevati soprattutto per i meno abbienti (come gli effetti delle ondate di calore sui decessi nelle città e quelli dell’inflazione da fonti fossili sul costo della vita e il carrello della spesa). Le azioni conseguenti vanno costruite in modo progressivo per evitare che il costo della transizione gravi sui più deboli. Per fare alcuni esempi i grandi impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili vanno autorizzati con contratti che trasferiscano parte dei benefici alle popolazioni locali che possono diventare anche azioniste del progetto (il modello scozzese).
Gli interventi sulla mobilità e sull’efficientamento energetico degli edifici devono dare priorità nelle forme d’incentivo pubblico alle fasce meno abbienti della popolazione. In generale il metodo partecipativo è sia strumento di soluzioni migliori che valorizzano la complementarietà e non sovrapponibilità di esperienze e competenze diverse dei vari attori del territorio, che elemento di attivazione che arricchisce soddisfazione e senso di vita dei cittadini. Non sempre i meccanismi partecipativi sono semplici e la loro gestione è fondamentale per tempi e aspettative. Ma se guardiamo ad esempi come la rigenerazione urbana di aree verdi essi possono essere veramente strumenti di attivazione e di protagonismo dei cittadini. Per muovere in questa direzione dunque non c’è niente di meglio dell’attivazione di laboratori dove tutti gli attori del territorio s’incontrano e co-programmano le strategie. Questo approccio, oltre ad essere, come ha sottolineato qualche anno fa la Corte Costituzionale, potenzialmente più produttivo di un intervento pubblico progettato senza ascoltare le parti sociali ha anche il non trascurabile effetto collaterale di ridurre passività ed attivare partecipazione, corresponsabilità, soddisfazione e ricchezza di senso di vita. I tre zeri (disoccupazione, povertà, emissioni nette) sono obiettivi fondamentali, ma la differenza sta nel metodo e quello partecipativo dell’economia civile indica strade che ci portano verso il risultato portando a casa altri due zeri che combattono povertà di senso del vivere e rischi per la democrazia.
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