L’Italia è in prima linea in un fenomeno che caratterizzerà sempre più l’Europa nei prossimi decenni: il declino demografico. Ma, a differenza di altri Paesi, nel nostro caso la questione è più urgente, più estesa e più pericolosa. Lo conferma l’Istat nel Rapporto Annuale 2025, dipingendo un quadro che intreccia spopolamento, invecchiamento, stagnazione economica e fragilità del welfare. In gioco non c’è solo il futuro della società, ma la sostenibilità stessa dei conti pubblici, della produttività e della competitività del sistema economico.
Nel 2024 in Italia si sono registrate solo 370.000 nascite, di cui appena 320.000 da cittadini italiani. È un crollo di oltre 184.000 unità rispetto al 2008. Il tasso di fecondità è sceso a 1,18 figli per donna, il minimo storico assoluto, ben al di sotto del già basso 1,44 registrato nel biennio 2008-2010. La piramide demografica si sta invertendo: per ogni persona con più di 80 anni ci sono meno bambini sotto i 10. Nel 2025, gli over 65 rappresentano il 24,7% della popolazione, mentre i giovani sotto i 15 anni solo l’11,9%. La situazione non è uniforme: nei comuni ultraperiferici si è registrato un calo demografico del 7,2% in un solo decennio, e il numero di comuni a "natalità zero" è raddoppiato tra il 2011 e il 2021.
La sostenibilità del sistema previdenziale e sanitario si basa su un equilibrio fragile tra popolazione attiva e pensionati. Questo equilibrio si sta sgretolando. Le persone in età lavorativa (15-64 anni) sono scese al 63,4% della popolazione, mentre gli anziani continuano a crescere in numero assoluto e relativo. Le previsioni al 2050 non lasciano spazio all’ottimismo: anche ipotizzando una lieve ripresa della natalità, il numero di donne in età fertile calerà drasticamente da 11,6 a 9,2 milioni, e i flussi migratori non saranno sufficienti a compensare il saldo naturale negativo.
Il declino demografico incide anche sulle performance economiche. Tra il 2000 e il 2024, l’Italia ha visto il proprio Pil reale crescere di meno del 10%, contro il +30% di Francia e Germania e il +45% della Spagna. A parità di occupazione, il nostro Paese ha perso in produttività: il Pil per occupato è sceso del 5,8%, mentre negli altri principali Paesi è cresciuto di oltre il 10%. Le cause sono strutturali: la forza lavoro invecchia (età media degli addetti cresciuta da 43 a 45,4 anni tra 2011 e 2022), il capitale umano giovane è scarso e il ricambio generazionale è lento, soprattutto nelle piccole imprese e in quelle meno produttive. Le imprese che riescono ad attrarre giovani qualificati mostrano maggiori capacità di innovazione e adozione di tecnologie digitali, elemento cruciale per competere in un'economia globale ad alta intensità di conoscenza.
Il calo demografico è causa e al tempo stesso conseguenza di dinamiche economiche e sociali negative: precarietà lavorativa, bassi salari, scarse opportunità nei territori periferici e costi elevati per la genitorialità scoraggiano la formazione di nuove famiglie. Parallelamente, il progressivo invecchiamento rende più difficile innovare, produrre valore e finanziare il welfare.
Il Rapporto Istat è chiaro: non è più il tempo delle analisi, ma delle decisioni. Di fronte a una dinamica demografica che minaccia la tenuta del sistema economico e sociale, è indispensabile intervenire con una strategia concreta che punti in via prioritaria alla riduzione del debito pubblico e al riordino della spesa, anche attraverso una revisione delle prestazioni assistenziali e pensionistiche non sostenibili nel medio periodo. Occorre affiancare a questo una riforma del mercato del lavoro che favorisca l’accesso e la permanenza dei giovani qualificati, insieme a un investimento deciso nell’innovazione tecnologica, nella ricerca e nel capitale umano, per rilanciare la produttività del sistema economico. Ogni rinvio aggraverà un processo già in atto, che oggi appare ancora reversibile, ma non per molto.
2025-06-09T09:16:00Z