IL CARCERE APERTO DI LUIGI PAGANO: “POCHE STORIE DI FALLIMENTO DEVONO PORTARE A MIGLIORARE IL SISTEMA NON A METTERLO IN DISCUSSIONE”
![]()
Il carcere Luigi Pagano lo conosce come pochi. Perché ha dedicato un’esistenza intera al superamento della distanza che separa i princìpi fissati nella Costituzione italiana dalla realtà della detenzione. Direttore di diversi istituti (San Vittore a Milano per 15 anni), diviene responsabile dalla fondazione, nel 2000, del carcere di Bollate e contribuisce ad impostarne la struttura. È stato poi Provveditore Regionale, vice Capo DAP, e ha scritto un libro, appunto “Il Direttore”.
Dottor Pagano, la tragedia accaduta qualche settimana fa ha fatto tremare tutti quelli che sostengono l’efficacia dei percorsi di reinserimento graduale dei detenuti. Una persona ammessa al lavoro all’esterno e detenuta nel carcere di Bollate ha messo in atto una serie drammatica di delitti e si è poi tolta la vita. Cosa ha pensato?
Ovviamente mi ha colpito, non perché io consideri Bollate un istituto perfetto ma perché è dimostrazione della imprevedibilità delle azioni umane. Rispetto alla reazione emotiva deve prevalere il raziocinio, e credo che si debba lavorare per ridurre al minimo i rischi, anche se va considerata la componente fatalità. Peraltro, non va mai dimenticato che i passaggi in progressione del trattamento penitenziario presuppongono che il detenuto – quando fa il primo di essi – non possa considerarsi già reinserito in società; il percorso deve proseguire, con il giusto accompagnamento, al di fuori delle mura del carcere.
Parlando di lavoro all’esterno, e quindi di quel provvedimento rispetto al quale il magistrato di sorveglianza approva un programma predisposto dall’equipe trattamentale del carcere, si vede come sia un istituto che l’ordinamento considera il primo step di trattamento “aperto”, tanto che può essere concesso ai condannati da subito (se per reati gravi dopo un terzo di pena) e comunque prima, per esempio, dei permessi premio. Qual è la procedura in concreto per valutare la persona rispetto alla idoneità del programma e delle sue prescrizioni a reinserire ma anche ad evitare rischi?
Partiamo dall’importante sviluppo che sta avendo il cosiddetto “articolo 21”. I numeri del lavoro dei detenuti crescono complessivamente e anche questo Governo ha investito molto su questo tema, da ultimo inserendo nel decreto sicurezza alcune norme di incentivo anche fiscale specifico. Quasi un terzo dei detenuti lavora, ma il lavoro vero, quello per le aziende private, riguarda solo una parte – in crescita – di chi sta in carcere. In una realtà come la Lombardia, dove la comunità esterna è culturalmente orientata a riaccogliere chi ha sbagliato, si concede un terzo dei programmi di lavoro all’esterno di tutta Italia (circa 700 nel 2019, quasi 900 oggi). Addirittura, Bollate ha superato di recente con il lavoro per aziende esterne quello prestato per l’amministrazione penitenziaria, realizzando quell’obiettivo di dare ai detenuti percorsi di reinserimento autentico, che porta a quella enorme riduzione di recidiva di cui tanto si è parlato in questi giorni. La proposta di lavoro esterno nasce dall’attività di osservazione scientifica della personalità, che nei primi sei mesi di detenzione deve portare ad elaborare un programma di trattamento penitenziario individualizzato. Con il contributo di tutte le figure di riferimento (educatori, psicologi, criminologi, polizia penitenziaria, assistenti sociali, anche volontari) si costruiscono proposte trattamentali, che vengono aggiornate anche in funzione di quello che accade negli spazi di trattamento previsti, sia fuori che dentro il carcere. All’esterno, le prescrizioni del programma fungono quasi da “mura” che crescono intorno al detenuto quando esce dall’istituto a lavorare, ma la sua osservazione prosegue con il contributo del datore di lavoro e delle forze dell’ordine sul territorio, e la relazione di sintesi per il detenuto viene periodicamente aggiornata. Bollate ha poi la particolarità che dalla fondazione è nata pensando alla struttura in funzione del trattamento, e dunque con spazi fisici predisposti per osservare all’interno la persona detenuta. Per questo la sorveglianza dinamica si era così ben inserita in quella struttura: la persona poteva essere osservata anche all’interno nelle sue dinamiche di relazione, invece di restare chiusa a oziare nella camera di pernottamento (il che è evidentemente un controsenso) durante il giorno.
Ma tutto questo sistema funziona? Cosa si può fare perché diventi una prassi seguita in tutti gli istituti italiani, almeno nelle case di reclusione dove ci sono i condannati definitivi?
Sicuramente, ma ci devono essere alcuni accorgimenti che aiutino le imprese esterne ad accettare, accanto ai vantaggi del loro impegno (lavoratori molto motivati a reinserirsi, in primo luogo, ma anche agevolazioni fiscali significative), le tante difficoltà legate alle rigidità della burocrazia carceraria. Per esempio, già dai primi tempi del progetto Bollate, si iniziò ad inserire il lavoro all’esterno nei programmi individuali di trattamento, per avere una valutazione di idoneità “pronta all’uso” quando fosse arrivata una proposta concreta (così è accaduto per i tanti detenuti che hanno poi lavorato per Expo 2015). Altrettanto importante è che ci sia un coordinamento effettivo a livello regionale da parte del Provveditorato, in modo che ci sia una sorta di punto di riferimento che raccoglie le offerte di lavoro e che le gestisce anche in funzione delle caratteristiche delle diverse carceri sul territorio (nel 2009 si cercò di istituzionalizzare questa funzione con il progetto Articolo Ventisette, che resta attuale). Se l’impresa poi può avere lavorazioni interne dove formare persone che poi possono uscire a lavorare sul territorio, è l’ideale. L’importante è che questo coinvolga tutto l’istituto e non soltanto qualche sezione fortunata. È anche una questione di impostazione culturale. Ci vuole anche un po’ di coraggio di cambiare, io ricordo che all’inizio i detenuti non volevano muoversi da San Vittore e spostarsi a Bollate; poi ora, dopo 25 anni, sappiamo che le persone cercano a tutti costi di scontare la pena in quel carcere.
Cosa si può dire oggi alla magistratura di sorveglianza, da un lato, e all’opinione pubblica, dall’altro, perché si continui ad avere fiducia nella preparazione al reinserimento in società che si fa in carcere e che, attraverso le misure esterne come il lavoro, porta poi ad abbattere la recidiva?
Il punto è che la stragrande maggioranza di storie positive non fa rumore, mentre il caso singolo drammatico ne fa tanto. Ma io credo che i risultati di sistema siano davanti agli occhi di tutti. Le poche storie di fallimento purtroppo accadono, ma devono portare a migliorare il sistema e non certo a metterlo in discussione nelle sue linee fondamentali. Oggi si deve innanzitutto ridurre il numero di detenuti, posto che il sovraffollamento non consente di lavorare al meglio, si deve incrementare il personale che osserva i detenuti e anche quello che accompagna nella transizione interno/esterno (si è perso il ruolo centrale degli assistenti sociali), si devono investire risorse. Ma soprattutto bisogna credere nelle competenze ed avere fiducia verso chi, con fatica e passione, lavora a contatto con le persone detenute. Qualche storia bella aiuta. Oggi una delle principali cooperative che aiutano le persone detenute a trovare lavoro, la Bee4, è diretta da un ex detenuto per reati gravi, Pino Cantatore, che ha compiuto un percorso personale straordinario e ha messo a disposizione le sue capacità per consentire ad altri di fare lo stesso. Impariamo da lui che ci si può credere.
2025-06-09T21:30:26Z