C’è un filo sottile – e sempre più fragile – che separa il personal branding dall’auto-fiction. E Chiara Ferragni, protagonista dell’evento ICON di Lisbona il 5 giugno, ci cammina sopra da mesi. “Da influencer a imprenditrice: creare un impero partendo dall’autenticità” era il titolo della sua lectio, in un’arena che ha ospitato centinaia di professionisti del digitale. Con un piccolo dettaglio: l’ingresso, per i più entusiasti, costava anche oltre 1.000 euro.
E mentre in Italia si discute ancora del “pandoro-gate” – con la data dell’udienza in tribunale fissata a settembre per presunta truffa aggravata – Ferragni rilancia la propria immagine all’estero, in un contesto dove la crisi reputazionale sembra non essere mai accaduta.
Nel suo discorso, l’imprenditrice digitale ha raccontato la propria ascesa nel mondo della moda e della comunicazione, insistendo sul valore dell’autenticità, del mostrarsi vulnerabili, del trasformare i momenti difficili in opportunità di crescita. Il riferimento? Il divorzio da Fedez, definito “molto mediatico”, e poco altro. “Le persone mi fermavano per strada per darmi coraggio e mi dicevano che avrei ritrovato l’amore”, ha raccontato. Una frase ad effetto che sembra confezionata per i reel, ma che stride se confrontata con la realtà digitale attuale, dove Chiara è costretta a disattivare i commenti sotto i post per l’elevato tasso di critiche.
Nessun accenno, invece, alla vicenda che ha incrinato seriamente la sua credibilità agli occhi dell’opinione pubblica: il caso Balocco, il pandoro griffato, la beneficenza poco trasparente, le scuse in lacrime, le multe, l’inchiesta. Tutto cancellato. Non pervenuto.
Il paradosso è evidente: si parla di autenticità mentre si rimuove dalla narrazione l’episodio che, più di ogni altro, ne avrebbe messo alla prova la sostanza. Perché l’autenticità, se è davvero tale, non può essere selettiva. Non può diventare uno storytelling tagliato su misura per palati esteri, dove l’imbarazzo italiano non arriva, dove nessuno – o quasi – chiede conto di una beneficenza fraintesa, di un marchio personale finito sotto accusa.
Questa omissione non è casuale. È strategia. In un momento in cui Ferragni sta visibilmente cercando di ricostruire la propria immagine, l’estero rappresenta un terreno ancora vergine, privo di memoria collettiva su ciò che è accaduto. Un reset narrativo. Una ripartenza a pagamento – letteralmente – dove il pubblico, investendo in un biglietto costoso, è predisposto ad ascoltare, più che a contestare.
La platea portoghese, infatti, ha accolto senza apparenti riserve la favola di resilienza. Ma il silenzio del pubblico internazionale è spesso frutto di distanza, non di adesione. Perché l’Italia, invece, non ha dimenticato. E anzi osserva, misura, valuta ogni mossa dell’ex regina di Instagram. L’influencer che per oltre dieci anni ha dominato la scena mediatica, costruendo un impero che si alimentava di autenticità, oggi sembra giocare su quel concetto in modo più chirurgico, meno spontaneo. Come se l’autenticità fosse diventata a sua volta un filtro, una patina dorata da gestire in modo selettivo.
Ecco perché l’intervento di Lisbona solleva più domande che risposte. Non è scandaloso che Ferragni voglia rilanciarsi: è umano, legittimo, persino necessario in chiave imprenditoriale. Ma la vera forza comunicativa non sarebbe stata proprio nell’affrontare la crisi apertamente? Raccontare il caso, la caduta, le notti insonni, le conseguenze professionali? Un modo per dimostrare che l’autenticità non è solo immagine da Instagram, ma una postura culturale che regge anche quando si perde controllo sulla narrazione.
Invece, si è preferito il silenzio. Che, in un’epoca ipermediatizzata, vale più di mille smentite. Perché è proprio quello che si sceglie di non dire a definire, oggi più che mai, la credibilità di un brand personale.