È stato appena consegnato a Bruxelles ma è già al centro delle critiche. Il Pniec, Piano nazionale integrato energia e clima, è un obbligo europeo: uno strumento per avviarsi verso l’obiettivo di una società a zero emissioni serra al 2050 e per raggiungere entro il più vicino 2030 un taglio del 55% delle emissioni che alterano il clima. Visto che l’Italia è in forte ritardo, qual è la via migliore per accelerare il percorso ottenendo vantaggi economici per il Paese?
Il governo Meloni ha deciso di seguire le orme di Silvio Berlusconi che nel 2009 firmò un protocollo d’intesa con il presidente francese Sarkozy per avviare, con la costruzione in Italia di 4 reattori EPR, un ambizioso rilancio del nucleare. All’epoca non andò benissimo. Il disastro di Fukushima dell’11 marzo 2011 provocò la fusione del nocciolo di tre reattori della centrale nucleare, con conseguenze che arrivano ai giorni nostri per le accuse della Cina sul recente rilascio in mare dell’acqua radioattiva usata per contenere le dimensioni dell’incidente.
L’avventura nucleare di Berlusconi si concluse nel 2011 con il secondo referendum sul nucleare che, come il primo (1987), segnò una larga vittoria del fronte contrario all’atomo. Se l’Italia avesse portato avanti l’accordo con Sarkozy il debito pubblico sarebbe oggi più pesante: nel frattempo due delle principali aziende del settore, la francese Areva e la nippo-americana Toshiba Westinghouse sono fallite per l’impennata dei costi.
Ora l’appello per il “100% Rinnovabili Network” firmato da docenti universitari, fisici e ricercatori (da Maria Cristina Facchini, direttrice dell’Isac-Cnr a Marco Frey della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, da Giuseppe Scarascia Mugnozza dell’università della Tuscia a Roberto Danovaro presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn), imprenditori (come Maria Paola Chiesi), sindacati, associazioni (Acli, Arci, FederBio, Libera, Banca Etica, Symbola, Slow Food) e ambientalisti chiede di non ripetere l’errore.
“Invece di accelerare in modo adeguato lo sviluppo delle rinnovabili per arrivare alla piena decarbonizzazione della produzione di elettricità, il nuovo Pniec prevede uno scenario di ritorno al nucleare a fissione, con la costruzione di Small Modular Reactor (SMR), di Advanced Modular Reactor (AMR) e di micro reattori, con una potenza di 0,4 GW al 2035, 2 GW al 2040, 3,5 GW al 2045 e 7,6 GW al 2050”, si legge nel testo dell’appello promosso dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile e dalle principale associazioni ambientaliste come Legambiente, Wwf, Geenpeace e sottoscritto dai primi cento firmatari. “I nuovi modelli di reattori nucleari a fissione, anche se più piccoli dei precedenti, generano comunque grandi quantità di isotopi altamente radioattivi, producono rifiuti radioattivi pericolosi per molte migliaia di anni, contaminano impianti e siti per lunghissimi periodi, sono pur sempre impianti a rischio di incidenti che, anche se con una probabilità bassa, possono causare impatti devastanti”.
In realtà il punto in discussione non è tanto quello della possibilità di un incidente con fusione del nocciolo, un evento considerato estremamente improbabile dai costruttori delle centrali eppure avvenuto già due volte, ma quello relativo ai costi. Visto che, per evitare un tracollo climatico, dobbiamo tagliare molto rapidamente le emissioni serra, ha senso investire sul nucleare? È la via per conciliare il taglio delle emissioni serra e la difesa dei posti di lavoro?
“Nell’Unione Europea ci sono 12 Paesi che hanno centrali nucleari e 15 che non le hanno: presto diventeranno 11 e 16 perché il governo spagnolo ha deciso di uscire dal nucleare seguendo l’esempio della Germania”, ricorda Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile. “L’Italia è l’unico Paese della Ue che vuole aprire centrali nucleari sul proprio territorio. Una posizione sorprendente perché i dati dell’International Energey Agency mostrano un netto declino dell’impiego dell’energia nucleare e un forte aumento dei suoi costi. Tra il 2010 e il 2022 in Europa c’è stato un calo del 29% dell’energia nucleare, mentre nello stesso periodo le rinnovabili sono cresciute del 66%. Anche perchè il prezzo del chilowattora da rinnovabili è ormai molto più basso di quello del chilowattora da nucleare anche calcolando i costi dell’accumulo”.
Un’obiezione fatta a chi propone lo scenario 100% rinnovabili è che alcune di queste fonti non sono programmabili, cioè forniscono elettricità in modo discontinuo, mentre c’è bisogno di energia anche quando è buio e manca il vento. Ma il salto di tecnologia che c’è stato negli ultimi anni ha cambiato lo scenario perché è entrato in gioco un sistema di accumulo dell’energia sempre più ampio e sofisticato. Ad esempio in California quando il sole cala si attiva un’enorme quantità di batterie che, in combinazione con le rinnovabili programmabili come le biomasse o la geotermia, prolunga il funzionamento del sistema basato sulle rinnovabili.
“Anche la proposta di costruire piccoli reattori modulari non ha senso: fu presa in considerazione in Italia negli anni Ottanta del secolo scorso e bocciata”, aggiunge Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace. “Per produrre la stessa quantità di energia di un EPR da 1.650 megawatt bisognerebbe costruirne almeno sei, cioè trovare per sei volte il consenso necessario. Inoltre l’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti ha recentemente analizzato le diverse tipologie di SMR proposti e ha concluso che con i piccoli reattori la produzione di rifiuti nucleari aumenterebbe in modo consistente. Esistono un’ottantina di progetti diversi allo studio, ma i prototipi funzionanti di SMR sono pochissimi: uno in Russia, un altro in Cina. Entrambi hanno avuto costi tra il triplo e il quadruplo del previsto. Un terzo in costruzione in Argentina ha già registrato costi otto volte superiori al previsto”.
Nella polemica è intervenuta anche la Cgil esprimendo la preoccupazione che la querelle sul nucleare finisca per distogliere l’attenzione dalle rinnovabili rallentando il processo di decarbonizzazione. “La scelta nucleare del governo disconosce la volontà popolare espressa in due referendum, non tiene in alcuna considerazione i costi, i tempi e i rischi di tale ipotesi, è inefficace per l’azione climatica”, ha dichiarato Christian Ferrari, segretario confederale Cgil. “È urgente, invece, accelerare una giusta transizione ecologica. Per riuscirci occorre: puntare sul risparmio e l’efficienza energetica e sullo sviluppo delle fonti rinnovabili; definire un percorso di uscita da tutti i combustibili fossili”.
2024-07-12T14:32:05Z