Regista intenso e raffinato, Valerio Mieli con soli due film in più di quindici anni si è conquistato un posto d’onore nel cinema italiano. Dopo Dieci Inverni (2009), anche romanzo, e Ricordi? (2018), l’arrivo di un suo prossimo film, per la gioia dei numerosi fan, potrebbe essere vicina. Perché quel film, intanto, è stato scritto: Scelgo tutto (La nave di Teseo), il suo ultimo romanzo uscito in questi giorni, sembra proprio essere stato ideato per diventarlo, e infatti i diritti cinematografici sono stati già venduti. Racconta la storia di una decisione – partire per Parigi o restare nel paesino dove è nato? – che cambierà ogni cosa nella vita di un ragazzo, Cosimo, l'io narrante, e di conseguenza anche nell’esistenza di tante persone legate a lui, la fidanzatina adolescenziale Sabrina, la donna con cui potrebbe avere una relazione a Parigi, Marie-Madelaine, e soprattutto Giacoma, spirito ribelle e irrequieto. Grazie al potere della scrittura, Mieli attraverso il suo protagonista “sceglie tutto”, ovvero esplora entrambe le possibilità, percorrendo due vite parallele. Ma quanto contano le scelte, e quanto il caso? Ne abbiamo parlato con lui.
Il suo romanzo si basa su un “se”, una decisione, partire o restare, che cambia tutto, e non in una vita sola. Com’è nata questa idea?
Interrogarmi se una certa scelta fosse stata quella giusta oppure no, e perché, è un pensiero che mi ha tormentato a lungo. Tante persone se lo chiedono di continuo, soprattutto in quest’epoca. Oggi ci sono molte più possibilità, ma a questa libertà si è associata l’ansia del dover decidere, che ti porta a chiederti: ho fatto bene a vivere qui, a sposarmi con questa persona, a fare o non fare dei figli, a scegliere questo lavoro? Sono domande che non hanno risposte nella vita reale, così ho provato a immaginare cosa poteva succedere facendo vivere a un personaggio due strade possibili, due mondi. Per osservarlo negli anni di fronte ai grandi eventi della vita e cercare di capire, di volta in volta, quale decisione fosse stata migliore.
L’immaginazione è un superpotere, che a volte però alimenta l’incertezza...
Il tema dell’immaginazione è centrale in questo romanzo e la principale caratteristica di Cosimo è proprio la fantasia, nei suoi lati positivi perché è una persona creativa che fa scelte artistiche, ma anche negativi, ovvero il suo vivere costantemente altrove, l’immaginarsi possibilità che non sa gestire e che possono diventare opprimenti.
Quanto c’è di lei in Cosimo?
Ho usato il romanzo come un prisma: c’è qualcosa di me un po’ in tutti i personaggi, soprattutto quelli femminili. Cosimo non è per forza il personaggio più importante, è per certi versi il punto d’osservazione. In lui di me c’è sicuramente l’immaginazione, vissuta nella dialettica tra gli aspetti positivi e quelli invece non salutari, che rendono la fantasia un peso, perché non ci fa vivere serenamente le scelte che abbiamo fatto. Poi naturalmente c’è la finzione, anche se tutto è pescato e rielaborato dal mondo reale.
Giacoma, con cui il Cosimo che resta avrà una relazione, diventa anche lei io narrante di parte del romanzo: cosa rappresenta?
È l’alter ego di Cosimo. Ed è il personaggio che mi sono forse divertito di più a scrivere perché è sfuggente, selvatica, tormentata, anche la sua prosa è divertente, iconoclasta. È una donna che non trova mai il suo posto da nessuna parte, un altro aspetto tipico di quest’epoca. Viaggia costantemente cercando un’altra città, u’altra vita in cui vivere appieno. È sempre in cerca di qualcosa di più e anche in questo c’è un lato positivo, perché è bello poter vivere tante esistenze, ma anche di negativo, perché il non sapersi fermare lei lo vive come una condanna.
Torna spesso nel libro il concetto di accontentarsi: per molti ha un significato negativo, lei però attraverso la voce di Cosimo dice che questa parola racchiude anche la parola contenta.
È vero, però poi Cosimo osserva anche che quando ci si accontenta, rimangono fuori tante cose. Qual è l’atteggiamento migliore? Non c’è una risposta univoca, ovviamente, a questa domanda. Del resto, ho scritto un romanzo anche lungo per provare a darla. Penso che la vita sia una costante contrattazione tra libertà e legami, tra il fermarsi e il rischiare. Però è innegabile che se quando ci si accontenta si perde qualcosa, non accontentandosi mai si perde tutto.
Un altro elemento del romanzo è un rudere che in un caso torna a essere una casa accogliente. Cosa simboleggia?
Non scrivo pensando che qualcosa debba rappresentare questo o quello, spero sempre che i simboli emergano più nei lettori. Però, a posteriori, posso dire che è un luogo di vita abitata, e allo stesso tempo di fantasia. È un luogo di vita reale o potenziale, un’ambivalenza che attraversa il romanzo e tutti i personaggi, e come loro prende strade diverse, perché in un caso il protagonista decide di sistemarlo per abitarci, nell’altro ci andrà comunque a vivere per un po’, ma in un modo avventuroso perché ha scelto di non piegarsi alle convenzioni.
Nei suoi lavori, anche nei film, è molto presente il concetto del tempo, dello sguardo lungo su personaggi colti nella loro evoluzione. Perché?
Mi stupisce che questa questione non interessi tutti. Le storie che si svolgono sul lungo periodo hanno un’ampiezza e una profondità esistenziali che le rende più interessanti, rispetto a quelle ambientate in unità di tempo e luogo. Ho provato a scrivere storie più piccole, ma ogni volta mi accorgo di voler sapere cosa succede dopo. Anche la vita più banale delle persone comuni, se sintetizzata nei punti salienti di un’esistenza, diventa avvincente. Attraverso il racconto è possibile mettere in evidenza quello che nel corso della vita non notiamo. In Dieci inverni, per esempio, prendere un giorno dell’esistenza di una coppia ogni anno e metterli tutti vicini ci permette di vedere cambiamenti, e un disegno complessivo che al ritmo normale della vita non coglieremmo. È un po’ così anche in Ti ricordi? È un lavoro esplorativo.
Scrive romanzi ed è regista. Cosa preferisce?
Mi diverto molto di più a fare cinema, rispecchia maggiormente la mia indole. È un’attività più vitale e meno solitaria della scrittura pura che, comunque, rappresenta anche una parte essenziale nella realizzazione di un film. Scrivere ti porta di continuo a chiederti: cosa deve fare questo personaggio? Perché raccontare una storia invece di un’altra? Rispetto a un film il romanzo permette più scelta. Di un personaggio puoi dire solo che ha gli occhi verdi e lasciare il resto all’immaginazione, mentre in un film gli occhi verdi si portano dietro tutto il resto, imponendo agli spettatori una certa immagine. Poter utilizzare entrambi i mezzi, così differenti, per cercare di arrivare alla stessa risposta, è affascinante: in qualche modo si completano.
Si sente più libero quando scrive o quando realizza un film?
Quando scrivo, perché si può inventare qualunque cosa. Però, come ho detto, la libertà è anche un peso. Tutto quello che c’è in un romanzo è frutto di scelte, un controllo assoluto che può diventare opprimente. Nel cinema, invece, ci sono tanti ostacoli e paletti, dal budget al fatto che si mette a piovere quando si deve girare. Devi fare i conti con la realtà, e questo lo rende più sano. Scrivere un romanzo è come giocare a scacchi, tutto dipende da te, mentre realizzare un film somiglia a quei giochi da tavolo in cui conta anche il caso, e che quindi sono più simili alla vita.
Quanto ci ha messo per scrivere Scelgo tutto?
Più di cinque anni, in pratica non sono quasi mai uscito dal lockdown. Ho continuato a fare quella stessa vita, isolato. È stato faticoso, perché scrivere un’opera lunga, come è un romanzo, ha qualcosa di innaturale. Richiede un’architettura elaborata, la costruzione di personaggi complessi e un grande lavoro. Io poi volevo arrivare a una forma semplice, nella quale non si notasse la complessità, e c’era sempre una nota che non mi tornava, così ricominciavo da capo. Ho riscritto più di cento pagine, e l’ho fatto anche per dieci volte. Poi mi sentivo in colpa, così andavo a guardare in quanti anni avevano scritto i loro romanzi quelli molto bravi, come Manzoni e Tolstoj: constatare che ci avevano messo parecchio mi ha rassicurato.
Anche tra un suo film e l’altro possono passare molti anni. Come mai?
Io lavoro a lungo sui miei progetti e poi sono esigente, ho detto anche dei no importanti a grandi progetti che avrebbero potuto avere un peso sulla mia carriera, ma non me ne sono pentito, non mi convincevano. Sono contento di aver fatto solo cose in cui mi ritrovo: è un privilegio. Detto questo, alcune cose che avrei voluto realizzare non sono andate in porto. Nel frattempo, faccio foto, teatro, e poi insegno. Confesso, però, che ora non mi dispiacerebbe ridurre l’intervallo tra un progetto e l’altro.
Di Scelgo tutto ha già venduto i diritti: quando diventerà un suo film?
La cessione dei diritti è legata alla mia regia, quindi se lo si farà, sarò io a dirigerlo e, del resto, ne sarei contento, ma il quando non dipende solo da me. In ogni caso, anche per mia deformazione, la struttura del romanzo si presta perfettamente a un adattamento cinematografico.
2025-05-12T15:45:57Z