QUANDO GLI ITALIANI HANNO DECISO CHE VOTARE ERA IMPORTANTE?

Nessuno dei cinque quesiti referendari, quattro sul lavoro e uno sulla cittadinanza, ha raggiunto il quorum dei cinquanta per cento dei voti più uno. Un quesito, dunque, chiedeva di modificare le norme sulla cittadinanza e gli altri quattro riguardavano il lavoro, ma il bilancio, a spoglio terminato, è stato più deludente del previsto: se, infatti, era opinione comune che il raggiungimento del quorum sarebbe stato un obiettivo difficilissimo da raggiungere, in un Paese come il nostro, sempre più reticente a partecipare ai quesiti referendari, si sperava comunque in un dato migliore. E invece l’affluenza è stata di poco più del 30 per cento.

Nel dettaglio, si votava per quattro quesiti sul lavoro, proposti dal sindacato CGIL, e per un quesito sulle modalità con cui si ottiene la cittadinanza italiana, che aveva l’obiettivo di ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza regolare necessari per chiederla. Quest’ultimo era stato proposto dal partito progressista +Europa. Sui primi quattro quesiti i voti favorevoli sono stati tra l’86 e l’88 per cento: poco meno di 13 milioni di voti (solo uno, il primo, li ha superati di poco). I “No” invece sono stati tra il 12 e il 14 per cento (quindi tra 1 milione e 850mila persone e 2 milioni e 100mila circa). Nel referendum sulla cittadinanza invece ha votato a favore circa il 65 per cento dei partecipanti (poco meno di 10 milioni di voti), mentre il 35 per cento ha votato “No”, oltre 5 milioni di persone: è un risultato molto sotto le aspettative, non solo quelle dei promotori, e inatteso per la quantità di voti contrari.

Non il risultato peggiore, quello spetta al 20,92% ottenuto dai cinque quesiti sul tema della giustizia su cui gli italiani furono chiamati a votare nel 2022. Ma quello dello scorso fine settimana rimane il sesto peggior risultato in termini di affluenza da che in Italia si tengono referendum. E conferma un trend negativo iniziato trent'anni fa.

Settantotto volte al voto, ma sempre meno partecipazione

Da quello istituzionale del 1946, per scegliere tra monarchia e Repubblica, a quelli che hanno riguardato la scelta su aborto e divorzio, gli italiani sono stati chiamati a votare per un referendum 78 volte. In particolare, dal dopoguerra a oggi, sono stati 67 quelli abrogativi, 4 quelli costituzionali e uno consultivo.

Per quanto riguarda gli abrogativi, il quorum del 50% più uno degli aventi diritto al voto, dal 1974 al 2022, è stato raggiunto in 39 occasioni, mentre in 28 non è stata superata la soglia.

Il primissimo Referendum istituzionale fu quello grazie al quale oggi viviamo in una Repubblica e non più in una monarchia. È stato il fondamentale voto del 2 giugno 1946. Fu il primo referendum e anche l’unico a proporre, oltre alle domande con le caselle da barrare, due simboli sulle rispettive opzioni: a sinistra il volto dell’Italia turrita nell’aspetto di una giovane donna, a destra lo stemma del regno sabaudo. Fu il referendum con la percentuale di affluenza mai più raggiunta finora: l’89,1%.

Il primo referendum abrogativo, invece, fu quello sul divorzio nel 1974. Andò a votare l’87,7% dei 37,6 milioni di elettori, la seconda percentuale di affluenza di sempre. I contrari all’abolizione del divorzio vinsero con il 59% dei voti, mentre i favorevoli furono il 41%. Il "no" vinse al termine di una campagna elettorale accesa come mai prima, che aveva coinvolto ogni parte politica e usato mezzi nuovi, dal fumetto alla pubblicità, dal cinema alle canzoni. Si erano visti personaggi pubblici prendere posizione su entrambi i fronti: dagli spot per il no girati da Luigi Comencini con Gianni Morandi, Nino Manfredi, Gigi Proietti e Pino Caruso, agli interventi per il sì di Franco Zeffirelli, Lino Banfi, Al Bano e Romina Power. Gli intellettuali schierati, i politici impegnati in discorsi apocalittici, su tutti quello di Amintore Fanfani, segretario della Democrazia cristiana che aveva dichiarato nel suo comizio: "Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto e dopo ancora il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva!". Alla fine, il risultato sarà inequivocabile: 19.138.300 elettori votano contro l’abrogazione della legge. Vince il no con il 59,26% dei consensi: il divorzio è salvo. La parola più usata per definire quel giorno è spartiacque. La usano quasi tutti e la usa anche Edoardo Novelli, docente di Comunicazione politica e Sociologia dei media all’Università di Roma Tre, autore con Gianandrea Turi di Divorzio. Storia e immagini del referendum che cambiò l’Italia, appena uscito per Carocci. "Quel referendum fu proprio questo: uno spartiacque che segna un prima e un dopo", dice. "Perché porta all’incasso una trasformazione della società cominciata nel decennio precedente, innescata dalla televisione, dal ’68, dalla contestazione studentesca, dai modelli che arrivavano da oltre oceano".

Dall’aborto al nucleare, i referendum che hanno segnato la storia

L'11 giugno 1978 è la prima volta in cui si vota su due quesiti referendari insieme: uno per l'abrogazione della legge sul finanziamento dei partiti e l'altro sull'ordine pubblico; la percentuale dei votanti fu 81,1%.

Nel maggio del 1981 gli italiani furono chiamati a esprimersi su 5 quesiti. Uno di questi proponeva di abrogare quasi completamente la legge n.194 sull'interruzione di gravidanza: il 68% dei votanti bocciò la proposta. Nello specifico, da una parte c’era la proposta del Partito Radicale (88,4%) dall’altra quella del Movimento per la vita (68%). Entrambe chiedevano l’abrogazione di alcune norme della legge 194 sull’aborto, ma in senso opposto: la prima per renderne più libero il ricorso, la seconda per restringerne la liceità. Gli italiani alle urne respinsero tutti e due i quesiti. Scelsero, invece, di preservare la legge che consentiva l’interruzione volontaria di gravidanza in una struttura pubblica, nei primi 90 giorni di gestazione. La permetteva tra il quarto e il quinto mese solo per motivi di natura terapeutica. E consentiva ai medici l’obiezione di coscienza.

L’8 novembre 1987 c’è la prima vittoria del SÌ al referendum. E sono ben cinque quelli dati ai quesiti promossi dai radicali, tra i quali i più importanti riguardano il nucleare (l’incidente di Cernobyl è dell’anno prima), la responsabilità civile dei giudici e la commissione inquirente. Proprio da questa tornata referendaria ancora oggi l’Italia non ha centrali nucleari sul proprio territorio. Il 1990 fu la volta dei referendum ambientalisti. I Verdi, infatti, sull’onda della vittoria per il nucleare, lanciarono insieme ai radicali, tre quesiti sulla caccia e l’uso dei fitofarmaci in agricoltura. Per la prima volta nella storia non si raggiunse nemmeno il quorum.

Nel 2006 il referendum riguardava la riforma federalista. Il 25 giugno di quell'anno votarono in tutto 26.110.925 italiani, pari al 52,46%. Questa volta furono i No ad avere la meglio, con il 61,29% contro il 38,71% dei Sì. Il 4 dicembre 2016 gli elettori vennero chiamati a pronunciarsi sulla riforma Renzi-Boschi, che a sua volta rivedeva la riforma del Titolo V e introduceva il Senato federale. Si recarono alle urne 33.244.258, pari al 65,48%. La vittoria del No sul Sì fu netta: 59,12% a 40,88%. Questo è ricordato come il referendum che ha indirettamente “fatto cadere” Matteo Renzi e determinato anche le sorti politiche di un governo.

C'è poi stato il referendum del 2011 sull'acqua pubblica è stato un momento importante nella storia italiana, dove i cittadini hanno votato per la gestione pubblica dell'acqua e contro la privatizzazione. Questo referendum ha portato a un risultato significativo, con un'ampia maggioranza di sì, esprimendo il desiderio di mantenere l'acqua come bene comune. Con il quorum del 54% e il 94% dei sì, nel 2011, 27 milioni di italiani votarono per la gestione pubblica del servizio idrico. L’Italia è stato l’unico paese in Europa a tenere un referendum sull’acqua.

Un istituto da ripensare? Il dibattito è aperto

Con quello dello scorso fine settimana, negli ultimi trent'anni sono 9 i referendum falliti per mancanza di quorum su un totale di 11 convocati. Negli ultimi trent'anni, infatti, per ben 11 volte gli italiani sono stati chiamati ad esprimersi attraverso un referendum. E solo in due occasioni il quorum è stato superato.

È avvenuto l'11 giugno del 1995, quando le schede furono addirittura 12, con quesiti che andavano dalla disciplina sindacale alla privatizzazione della Rai, dalle concessioni televisive agli orari degli esercizi commerciali. Quorum raggiunto anche nel giugno del 2011, quando i quattro quesiti riguardavano la disciplina del servizio idrico, l'energia nucleare e il legittimo impedimento. Ovvero la norma introdotta solo un anno prima dalla maggioranza che sosteneva il governo di Silvio Berlusconi, che consentiva a quest'ultimo di rinviare le udienze dei processi in cui era coinvolto a motivo degli impegni di governo.

In generale, nelle 21 occasioni in cui nel nostro Paese è stato indetto un referendum il quorum è stato raggiunto solamente 10 volte. E per qualcuno sarebbe il caso di ripensare le modalità di funzionamento di questo istituto della vita democratica del nostro paese, magari su modello della Svizzera, che indice in media 4 referendum all'anno senza che il loro risultato debba dipendere dal quorum: chi ottiene più voti vince, a prescindere da quanti cittadini siano andati alle urne. E alcuni, come Marco Cappato, tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni, questo sarebbe un modo per far sì che le persone si esprimano su questioni che le riguardano. Per Cappato sarebbe ragionevole "se si volesse alzare la soglia delle firme necessarie per indire un referendum. Quello che è fondamentale, oggi, è abolire il quorum: chi va a votare, decide”. Il dibattito è aperto.

2025-06-10T11:33:49Z