Dagli anni ’80 a oggi, la questione dell’abitare è progressivamente scomparsa dalle agende politiche dei grandi partiti italiani. Come ha sottolineato lo studioso Gregory Fuller nel volume Housing Financialization, a differenza delle famiglie politiche anglo-olandesi, scandinave e continentali, Est Europa, Grecia e, in particolare, Italia scontano una sostanziale carenza o assenza di politiche per la casa nei programmi elettorali dei maggiori partiti. Al mancato interesse politico per l’abitare, si aggiunge la difficoltà di accesso al mutuo, rendendo di fatto l’abitare un diritto sempre più esclusivo per chi non può vantare rendite patrimoniali immobiliari (o mobiliari) ereditarie. A questo fenomeno, si è poi aggiunta un’impennata dei valori immobiliari senza precedenti che a Milano ha toccato il +11,5% tra 2011 e 2021, una crescita inversamente proporzionale a quella dei salari (rimasti sostanzialmente invariati da decenni), ma generata dai tassi d’interesse bassi che hanno favorito i mercati immobiliari, specialmente nelle città più globalmente connesse e competitive.
Tutto ciò riguarda quello che diversi accademici internazionali descrivono come “finanziarizzazione dell’economia”, che quindi si riflette sulla “finanziarizzazione dell’immobiliare”, dei suoi mercati, dei suoi strumenti (mutui, prestiti, azioni, obbligazioni), traducendosi nella pressione che gli standard finanziari esercitano sui requisiti per l’accesso alla casa. Mentre da un lato la globalizzazione dei mercati ha necessariamente dovuto adattare i propri modelli di sviluppo in senso “finanziarizzato”, quindi affinando i business plan aziendali, tendendo a una maggiore standardizzazione ed estendendo il know-how finanziario a settori come l’immobiliare, dall’altro lato, la politica ha progressivamente e più o meno indirettamente favorito la finanziarizzazione dell’economia de-territorializzando (alienando) le politiche pubbliche dalla loro diversificazione in ambiti territoriali di riferimento.
Questo processo può essere a sua volta definito come “finanziarizzazione delle politiche urbane” e potrebbe spiegare (almeno in parte) le ragioni per cui mancano politiche per la casa: possibili soluzioni radicali ma incisive vengono inibite da argomenti di matrice finanziaria fondati, appunto, su scenari macroeconomici de-territorializzati come l’austerity, lo spread, eccetera.
Sicché, la questione è andata complicandosi proprio in quei Paesi, come l’Italia, che sono scarsamente capitalizzati, maggiormente soggetti a fenomeni pro-ciclici del mercato immobiliare e caratterizzati dalla carenza di politiche pubbliche audaci, come quelle destinate all’abitare. In questo senso, diversi osservatori sottolineano come i governi italiani (e le subordinate amministrazioni regionali e comunali), a differenza dei rispettivi omonimi in Spagna o Germania, siano incapaci di “mettere a terra” politiche radicali per mitigare una situazione ormai sempre più estrema che raggiunge livelli esasperanti specialmente per i cittadini dei maggiori capoluoghi di regione.
La questione è ovviamente complessa e necessiterebbe di un dibattito pubblico molto più profondo nell’investigare i fenomeni immobiliari e finanziari che spieghino l’origine dello scenario attuale, tuttavia il diritto all’abitare è talmente urgente che mi sento di avanzare tre proposte concrete per mitigare nel medio-periodo l’emergenza casa. In virtù delle motivazioni che illustravo poc’anzi, legate appunto alla “finanziarizzazione delle politiche urbane”, queste proposte sono radicali, quindi essenzialmente impopolari, pur tuttavia rappresentando scelte politicamente più condivisibili di quelle riguardanti la tassazione progressiva della rendita fondiaria, oggetto di un acceso dibattito parlamentare poco prima delle elezioni politiche del 2022.
La prima proposta riguarda la domanda di casa. Nelle maggiori città, specialmente a Milano, la domanda di beni immobili ad uso abitativo è molto più alta dell’offerta e questo rapporto ha fatto crescere esponenzialmente i valori immobiliari. Come sollecitato anche da alcuni operatori, si potrebbe invertire questa relazione producendo un grande piano di edilizia convenzionata e social housing co-finanziato con risorse pubbliche, agendo quindi sulla legge della domanda e dell’offerta.
Una seconda proposta riguarda le grandi aree di sviluppo urbano. Come hanno attuato diverse grandi città del nord Europa si potrebbe destinare una quota importante nei nuovi grandi progetti, attorno al 50% di SLP, a edilizia residenziale pubblica, edilizia convenzionata e social housing. Questa soluzione, come la precedente, riguarderebbe non solo le nuove costruzioni ma avrebbe il vantaggio di porre attenzione alla rigenerazione urbana del patrimonio dismesso di proprietà dello Stato o delle sue società partecipate.
Infine, una terza proposta riguarda l’equo canone d’affitto. Anche in questo caso, perfezionando l’esperienza della Catalogna, si potrebbe pensare, da un lato, di calmierare il canone d’affitto sul lungo periodo entro un range fondato da indicatori spazialmente definiti per ambito territoriale (idealmente per CAP), e dall’altro lato, di limitare la disponibilità di abitazioni per l’affitto di breve periodo destinate ai colossi del web.
Tutte e tre queste potenziali soluzioni portano con sé ovviamente possibili rischi urbanistici ma anche vantaggi connessi alla fiscalità, alla reddittività dei mercati immobiliari e allo sviluppo di nuove economie di scala legate alla sperimentazione stessa di questo tipo di politiche urbane. Una soluzione semplice e istantanea per combattere il caro-casa è difficile da individuare, ma questo scenario può ancora essere sovvertito dalla radicalità di politiche che saranno efficaci solo se legittimate da un ampio consenso democratico e nel solco di un paradigma che vede lo Stato tornare a fare pianificazione urbanistica.
2023-02-07T14:29:24Z dg43tfdfdgfd