CRISI DELLE BANCHE, I PRIMI SALVATAGGI NON BASTANO

La crisi bancaria probabilmente non finisce qui. L’impressione, mentre scrivo, è che non sia bastato il generoso intervento delle autorità americane per salvare i depositanti (molto ricchi) di Silicon Valley Bank e Signature Bank (nella foto la segretaria al Tesoro Janet Yellen, regista del salvataggio). Forse rischia di non bastare l’altro salvataggio in corso, quello che ha visto le mega-banche americane (tra cui JP Morgan Chase, Bank of America, Citigroup, Wells Fargo, Goldman Sachs, Morgan Stanley) prestare 30 miliardi di dollari ad un istituto regionale di San Francisco, la First Republic Bank, che subisce una fuga di depositi e quindi rischiava di diventare il terzo crac creditizio in una settimana. Del resto permangono molti dubbi anche sulla solidità del Credit Suisse, l’azienda di credito aiutata con 50 miliardi di franchi svizzeri dall’intervento della banca centrale elvetica, i cui problemi sono diversi rispetto a quelli delle banche americane. La vicenda svizzera è un campanello d’allarme perché dimostra che il sistema europeo del credito non è più solido di quello americano. Infine merita un accenno il “modello cinese”, che anche nella finanza promette stabilità attraverso un ruolo ancora più decisivo dello Stato, anzi del partito comunista.

Come si muovono i big di Wall Street

Cominciamo dall’intervento dei big di Wall Street in favore di First Republic Bank. Qui non siamo al remake del 2008, quando alcuni colossi bancari intervennero acquistando il controllo di banche in crisi (JP Morgan comprò Bear Sterns e Washington Mutual, Bank of America si prese Merrill Lynch). Stavolta le banche maggiori hanno semplicemente depositato quei 30 miliardi complessivi su conti correnti presso First Republic. In un certo senso questo parcheggio o prestito di fondi è una restituzione: in questo periodo infatti molti depositanti ritirano i loro soldi dalle banche minori e regionali per collocarli in quelle più grosse. Ma la “generosità” dei giganti, benché stabilizzi la situazione arrestando il deflusso di liquidità dalle casse di First Republic, può avere un effetto controproducente. Questo intervento infatti rafforza la sensazione che le uniche banche sicure sono quelle più grosse – alle quali si applicano regole e controlli più severi dal 2008 – e quindi può alimentare nuove fughe di clienti dagli istituti medio-piccoli. Se questo accadesse, il salvataggio mostrerebbe i suoi limiti: le mega-banche non possono ripetere all’infinito questa operazione di spostamento fondi o prestito, se i focolai di sfiducia dovessero svuotare le casse di molte altre banche regionali.

La fine dell’era della liquidità abbondante

Sullo sfondo c’è quella che ho chiamato “ la fine della ricreazione”, ovvero la fine dell’era segnata da liquidità abbondante e costo del denaro minimo. Con la rinascita dell’inflazione post-pandemia e l’imperativo di combatterla attraverso i rialzi dei tassi d’interesse, le banche centrali hanno creato uno shock le cui conseguenze non si esauriranno in poco tempo. La storia passata è ricca di lezioni, anche se molti sembrano ignorarle. Comincio con il ricordare il meccanismo di base che destabilizza le banche quando i tassi d’interesse salgono. Se una banca ha comprato un Buono del Tesoro americano decennale da mille dollari quando rendeva il 2% annuo, conservandolo per tutti i dieci anni della sua durata di vita, incassa il 2% ogni anno e alla fine recupera l’intero valore nominale di quel Treasury Bond, mille dollari. Ma cosa succede se invece la banca ha bisogno di venderlo prima della scadenza perché le serve liquidità per far fronte a richieste dei correntisti, e se nel frattempo i tassi d’interesse sono aumentati? Nel caso che i tassi siano saliti al 4% deve vendere quel Treasury Bond a soli 838 dollari invece dei mille, e subisce una perdita netta di 162 dollari, il 16% dei mille dollari. Questo accade perché il valore dei titoli a reddito fisso varia in modo inversamente proporzionale rispetto ai tassi di mercato. Oggi i vecchi titoli emessi quando i tassi erano molto bassi, hanno perso valore perché il loro rendimento è inferiore a quello dei titoli nuovi.

Perdite gigantesche (finora virtuali) per le banche

Questo meccanismo va applicato alla montagna di titoli a reddito fisso posseduti dalle banche, e il risultato è drammatico. La Federal Deposit Insurance Corporation alla fine del 2022 stimava che le sole banche americane avevano una perdita potenziale di 620 miliardi sui titoli a reddito fisso. Altre stime, allargando le categorie di titoli, arrivano a un totale di 1.750 miliardi di perdite. Sia chiaro, queste sono perdite solo virtuali, potenziali, finché quei titoli rimangono nella pancia delle banche. E potrebbero non realizzarsi mai, se le banche riescono a conservare quei titoli fino alla loro scadenza naturale, quando il rimborso avviene a valore pieno. Ma qualora ci siano fughe di clienti, richieste di rimborso, esigenze di liquidità, le banche devono vendere i titoli in anticipo e le perdite diventano reali. E’ questo il meccanismo fondamentale che opera dietro la crisi attuale. Per questo la Federal Reserve, fra i tanti strumenti di emergenza attivati per stabilizzare la situazione, offre anche la possibilità di riacquistare dalle banche i loro Buoni del Tesoro a valore pieno, come se venissero venduti alla scadenza finale.

Tutto questo era già accaduto (più volte)

Sullo sfondo c’è appunto la “ricreazione finita”. Molte banche si erano comportate come se dovesse durare per sempre l’epoca del denaro abbondante e semigratuito, generato dalle risposte alle crisi del 2008 e 2020: tassi d’interesse a zero, più il “quantitative easing” che consisteva in massicci acquisti di bond da parte delle banche centrali. In America le aziende di credito medio-piccole, sfruttando una deregulation del 2018, hanno fatto a meno di acquistare strumenti di copertura del rischio di rialzo dei tassi. Questi strumenti o “hedging” costano e incidono sui profitti. Le mega-banche sono soggette a requisiti più severi, si tutelano con lo “hedging” sui rialzi dei tassi, quindi la loro esposizione alla stretta monetaria della Fed è meno grave. Shock come questi sono già accaduti in passato, la storia è ricca di precedenti. I rialzi dei tassi d’interesse con cui la Fed contrastò l’inflazione negli anni Settanta e Ottanta furono all’origine del crac che travolse le Savings and Loans, le casse di risparmio. Un altro rialzo dei tassi “bucò” la bolla speculativa del Nasdaq nel 2000, all’epoca della prima euforia sui titoli tecnologici. Ancora un rialzo dei tassi nel 2007-2008 fece esplodere la bolla immobiliare e contribuì alle insolvenze dei mutui subprime, uno dei meccanismi all’origine della grande crisi finanziaria di 15 anni fa. Oggi ci risiamo, e se studiassimo la storia dovremmo essere un po’ meno sorpresi. Ma la stessa Federal Reserve è stata imprevidente. Aveva smesso di effettuare gli stress test sulle banche, cioè quegli esami che simulano gli effetti di un rialzo dei tassi. D’altronde la Fed ancora un anno fa prevedeva che i suoi tassi d’interesse sarebbero saliti al massimo fino a quota 2,8% mentre oggi sono al 4,5%. Non aveva visto arrivare questa inflazione, che l’ha costretta a un rialzo dei rendimenti ben più drastico e veloce. Quel che accade dopo i crac della Silicon Valley Bank e della Signature Bank, nonché dopo il salvataggio privato di First Republic Bank, va proprio nella direzione di contenere l’inflazione. Uno dei modi per raffreddare il carovita consiste nel lesinare i finanziamenti alle imprese, costringendo le meno robuste a fallire o comunque a licenziare. L’effetto è una riduzione della domanda, cioè in ultima istanza l’amara medicina che consente di raffreddare la corsa dei prezzi. Non c’è dubbio che in questo frangente tutte le banche stanno tirando i remi in barca, diventano più caute nella concessione di fidi. E’ però una terapia dolorosa, che lascia sul campo di battaglia morti e feriti.

Una resa dei conti per Green Tech

Tra le vittime, qualcuno ipotizza che ci saranno anche molte start-up protagoniste della “transizione verde” di Joe Biden. Tante aziende che ricevettero finanziamenti dalla Silicon Valley Bank appartengono proprio a questo mondo dell’innovazione ambientalista. Alcune sono competitive e possono sopravvivere da sole, altre invece dipendono da sussidi pubblici e da un atteggiamento amichevole da parte della finanza. La Silicon Valley Bank si vantava di avere tra i suoi clienti ben 1.550 aziende “del settore sostenibile e nelle tecnologie per la lotta al cambiamento climatico”. L’opposizione repubblicana ora accusa quella banca di essere stata il braccio finanziario di un ambientalismo ultra-radicale e irrealistico, che a spese del contribuente finanzia progetti inefficienti. Anche a spese di una oculata gestione del credito. In certi casi a ricevere prestiti dalla Silicon Valley Bank erano start-up “che non avevano neppure un prodotto”, secondo il Wall Street Journal. Ma anche un giornale progressista, il Washington Post, osserva che “molte aziende legate alle tecnologie verdi rischiano di fallire in conseguenza del crac della Silicon Valley Bank”. Ancora una volta torna in primo piano il legame politico tra la sinistra democratica e la Silicon Valley Bank, le cui imprudenze non furono mai sanzionate dalla Federal Reserve di San Francisco, dove era stato nominato lo stesso chief executive di quella banca ora fallita. Quel Greg Becker che una settimana prima di fare crac aveva venduto alla chetichella un terzo delle sue azioni nell’istituto che dirigeva.

2023-03-18T10:54:00Z dg43tfdfdgfd