È IL MOMENTO GIUSTO PER LASCIARE I SOCIAL NETWORK?

A sorpresa martedì Meta ha annunciato la chiusura del programma di controllo dei fatti (fact checking) affidato a soggetti terzi e indipendenti. Avviato nel 2016, il progetto affidava a degli “esperti” americani il compito di valutare la veridicità dei contenuti pubblicati sui social network del gruppo (Meta e Instagram su tutti) segnalando eventuali anomalie. Il sistema era diventato “censura”, ha scritto l’azienda, annunciando che passerà al metodo delle Community Note, in cui saranno gli utenti a occuparsi della qualità dei contenuti. Il cambio di strategia conferma la nuova linea del gruppo di Mark Zuckerberg, che come X del rivale Elon Musk, è sempre più schierato dalla parte della nuova amministrazione americana, dopo la vittoria di Donald Trump, e quindi poco incline a occuparsi di moderazione dei contenuti e verifica della veridicità. La settimana scorsa Meta ha affidato l’attività di guida delle relazioni esterne globali al repubblicano Joel Kaplan, stretto collaboratore di Trump.

Perché abbandonare i social media

Notizie, giornalismo e verità a Zuckerberg non servono. Chi li cerca vada altrove (di Pietro Saccò)

È un bene che Meta, approfittando del nuovo clima politico negli Stati Uniti, abbia deciso di fare un passo indietro sull’attività di controllo dei fatti: almeno si concluderà questa insostenibile farsa in cui il gruppo guidato da Mark Zuckerberg finge di mostrarsi interessato alla qualità dei contenuti che vengono pubblicati sulle sue piattaforme. Passati oltre vent’anni dal lancio di Facebook (diventato ormai il social della mezza età) e quasi quindici dall’ingresso di Instagram nel gruppo (anche lui invecchiato e frequentato oggi soprattutto da ex giovani), ormai dovremmo averlo capito con una certa dose di chiarezza: l’unica cosa che davvero interessa a Meta è che gli utenti stiano più tempo possibile sulle sue piattaforme, non importa per quali ragioni. Guardare video di balletti o animali che fanno cose sceme, partecipare a litigi con sconosciuti, andare a dare un’occhiata alle foto delle vacanze dei vicini: va bene tutto, basta che lo facciate sui social, in modo che il sistema possa raccogliere dati sui vostri gusti e comportamenti per poi rivenderli agli inserzionisti.

Zuckerberg ha avviato e mantenuto un’attività di fact checking finché gli è stata utile in termini di relazioni pubbliche: quando la politica americana ha iniziato ad accusare i social di essere complici del declino della vita democratica del Paese, l’imprenditore ha avuto bisogno di fare vedere che stava facendo qualcosa. Ma adesso che alla Casa Bianca rientra un presidente appassionato di “fatti alternativi” e del tutto a suo agio in uno scoordinato profluvio di assurdità e bugie via social, tutta questa pantomima del fact checking non serve più. Meglio, per Meta, visto che per l’azienda quello del controllo dei fatti era un lavoro fastidioso che toglieva risorse al core business – cioè la conquista dell’attenzione degli utenti a tutti i costi – e allo stesso tempo tendeva a ostacolarlo. Se un contenuto funziona, se ha le caratteristiche giuste per diventare virale, perché zavorrarlo con verifiche e controlli esterni? Lasciamo che siano gli utenti a giudicare, secondo il nuovo spirito delle Community Note che Meta copierà da X, l’ex Twitter.

Gli utenti producono i contenuti, gli utenti li giudicano, gli utenti li consumano e li rilanciano. Fanno tutto loro, e quando un servizio o un prodotto è gratis, dicono gli economisti esperti, c’è sempre un malinteso: se non paghi è perché il prodotto sei tu. Meta fa funzionare le piattaforme e guadagna su tutto quello, più o meno gratuitamente, gli iscritti pubblicano: nei primi nove mesi del 2024 il gruppo ha fatto ricavi per oltre 116 miliardi di dollari. Il business, insomma, continua a girare benissimo. Pensare che il giornalismo di qualità e le notizie potessero farne parte è stata un’illusione a cui hanno creduto in troppi. Non è con il ragionamento su quanto accade nel mondo che si conquista l’attenzione delle masse iperconnesse, abituate a scorrere i contenuti sui social per soffermarsi per una manciata di secondi su qualcosa capace di generare il breve rilascio di dopamina promesso (senza dichiararlo) dalle piattaforme. Altro che fact checking, l’errore di partenza e pensare di potersi informare mentre ci si annoia “scrollando” tra i post.

C’è chi ora invita ad abbandonare anche Facebook e Instagram, e pure Whatsapp, che fa parte del gruppo, così come qualche mese fa l’invito era a lasciare Twitter, dopo che è finito nelle mani dell’imprevedibile e bizzoso Elon Musk. Non è un’idea nuova. Jaron Lanier, guru della prima ora dell’intelligenza artificiale e delle nuove tecnologie, invitava già dal titolo a «cancellare subito i tuoi account social» in un libro pubblicato in Italia nel 2018, dove elencava e argomentava dieci buone ragioni per fare questa scelta. Si può anche essere meno radicali, e restare sui social usandoli solo per quello che sono: strumenti per dare un’occhiata a quello che pensano e scrivono altre persone e per partecipare a gruppi che condividono i nostri stessi interessi. Si può starci poco, usando il nostro tempo per attività più utili. Come informarsi, fidandosi del lavoro di fact checking che fanno i vecchi giornalisti e i loro editori.

Perché restare sui social media

Sono diventati la nuova tv seguendo il modello TikTok Vanno usati, ma non abitati (di Gigio Rancilio)

Succede ormai ciclicamente. E ovviamente succede anche questa volta, dopo che Zuckerberg ha deciso di cambiate le regole per contrastare le fake news su Facebook, proprio come ha fatto Elon Musk su X, l’ex Twitter. Molti si stanno chiedendo: e se uscissimo dai social? Già, cosa ci restiamo a fare su piattaforme che premiamo stili, contenuti e atteggiamenti che non condividiamo e che soprattutto non vogliono prendersi alcuna responsabilità rispetto ai contenuti che ospitano? La tesi di fondo è praticamente sempre la stessa: i social non esisterebbero senza di noi, quindi se ce ne andassimo in massa, sarebbero costretti a cambiare. Il ragionamento non fa una grinza ma non tiene conto di due cose importanti. La prima è che i social sono molti di più di quelli che frequentiamo abitualmente e non tutti sono uguali. X e Facebook, che sono già diversi tra loro, hanno regole e intenti molti diversi, per esempio, da BlueSky e Mastodon. La seconda cosa importante e che noi - noi italiani, noi occidentali - siamo solo una piccolissima parte dei miliardi di utenti che usano i social. E i nostri gusti, la nostra sensibilità e le nostre attese spesso non collimano con quelle degli altri utenti sparsi nel mondo.

Tanto per capirci: in Italia Facebook ha 26 milioni di iscritti, cioè il 10% di quelli europei e meno dell’1% di quelli mondiali (che sono 3 miliardi e 650 milioni). Ma anche se in tanti, in ogni parte del mondo, mettessero da parte le loro differenze e abbandonassero i social, nulla ci garantisce che migliorerebbero. E poi - lo dico come provocazione - siamo così sicuri che debbano essere le piattaforme social a migliorare e non noi che le usiamo a doverlo fare prima di loro? Ho scritto volutamente usiamo e non abitiamo (per anni ci siamo ripetuti che i social vadano abitati) perché credo che si debba tornare a usarli come facciamo con un elettrodomestico. Cioè, solo per il tempo e per ciò che ci serve. Abitare i social infatti significa uniformarsi alle loro leggi, parlare il loro linguaggio, sottostare ai loro diktat, con tutto ciò che ne consegue. Usarli invece sta a significare che siamo noi a decidere cosa fare e quando farlo. Non è un salto da poco. Tanto più che per molti di noi il mondo dei social è quella cosa che fa diventare «virale» un contenuto, che ci dà visibilità e che, nel caso soprattutto di Facebook, ci mette in relazione con amici, parenti, conoscenti e amici digitali. Solo che nel frattempo i social sono cambiati e con essi anche Facebook. Sono sempre meno piattaforme di relazione e sempre più spazi di intrattenimento, di spettacolo. Trainati dal modello TikTok stanno diventando la nuova tv. Dove i video la fanno da padrone e noi passiamo le ore a scorrerne decine e decine, così come una volta saltavamo da un canale televisivo all’altro col telecomando. Da giornalista non mi fa alcun piacere ammetterlo, ma i social non sono nemmeno (più) luoghi adatti all’informazione a meno che non diventi spettacolo, non provochi e non aggredisca i “nemici”.

Allora, prima di chiederci se sia giusto uscire o meno dai social, dovremmo chiederci perché ci siamo. Parlo per me: io ci sono perché, nonostante tutti i loro difetti, sono luoghi che mi aiutano a capire dove va una parte del mondo e di noi. A volte riesco perfino a informarmi, altre a divertirmi. Altre ancora a non dimenticare i compleanni di alcuni amici e altre ancora a rimanerci male per le cadute di stile di persone che stimo. Nel frattempo ho imparato che non sono più luoghi di confronto, ma di tifo. Di pro e contro. Ho anche imparato a non dare troppo peso alle sparate di chiunque, politici compresi. Come ho accennato sopra, li uso come un elettrodomestico: per il tempo che mi serve e per quello che mi serve, poi li spengo e vado avanti a vivere. Se lo facessimo tutti, questa - più che abbandonarli - sarebbe una vera rivoluzione. Perché, vedete, il problema è sì lo strapotere dei social, degli algoritmi e della tecnologia, ma alla fine le scelte sono nostre, sono umane e sono personali. Il peggior algoritmo e la peggiore capacità di moderare i social siamo noi. Vale per i social come per WhatsApp, Telegram, Signal. Vale per il web, per Internet e per l’intelligenza artificiale. Smettiamola di dare le colpe agli altri e iniziamo a prenderci le nostre responsabilità. Senza scappare, ma restandoci per fare la differenza. Da uomini e da cristiani.

2025-01-11T05:16:20Z